Le avventure del Barone di Münchausen: il Barone più strampalato del mondo merita senza dubbio di iniziare questo percorso al quale, dopo le sollecitazioni di Paolo Jedlowski e Simone Giusti non ho resistito. La dignità dell’apertura dell’elenco il Barone la deve a molti motivi: è stato senza dubbio uno dei primi libri letti da solo, ricordo soltanto che allora non mi ponevo affatto il problema della verosimiglianza, tutte vere erano per me le splendide avventure del Barone, tutte da immaginare. Mi faceva uscire, mi faceva girare il mondo in groppa a una palla di cannone dava a un bambino piuttosto solitario, non per vocazione, rutilanti compagnie e dozzine di avventure da raccontare. Poi, un anno fa, l’ho riletto assieme a mio figlio Elia ed è stato davvero divertente, per entrambi (ma suppongo più per me), e vi ho trovato un senso nuovo. Non avevo mai riflettuto sul fatto che sia un elogio del vissuto soggettivo contro la violenza e la prepotenza del resoconto oggettivo. Chi ha ragione? Il Barone che apre il suo racconto con le parole che cito in esergo o i suoi detrattori? Ciò che ignorano i più è che Raspe e Burger, che separatamente raccontarono le avventure del Barone, si ispirarono alla vita del vero Barone di Münchausen, militare tedesco vissuto tra il 1720 e il 1797, noto per i racconti che faceva delle sue mille avventure. Che cosa conta infatti? Ciò che è successo o come raccontiamo (e ci raccontiamo) ciò che è accaduto?
Nel silenzio di letture della pre-adolescenza e dell’adolescenza, dopo un’infanzia da lettore, spiccano (anche, diciamocelo, per difetto di concorrenza), romanzi con protagonisti assoluti, dal carattere scolpito nel marmo, così assoluti da incontrare il gusto di un ragazzino alla ricerca di un’identità funzionante dopo averne tentate alcune fallimentari. Il Martin Eden di Jack London e il Billy Budd di Herman Melville dunque si dividono la seconda tappa: la volontà indefessa e quasi autodistruttiva del primo e il candore ingenuo del secondo credo mi siano entrati un po’ dentro o mi abbiano, almeno, fatto da specchio. Considero un omaggio alla professoressa Colombo, mia amatissima insegnante di lettere delle medie, quello di avere, con queste letture, tenuto vivo, almeno sottotraccia, il me lettore.
“So che mi accusano di superbia, e forse di misantropia, o di pazzia. Tali accuse (che punirò al momento giuto) sono ridicole. È vero che non esco di casa, ma è anche vero che le porte (il cui numero è infinito) restano aperte giorno e notte agli uomini e agli animali. Entri chi vuole. […] Un’altra menzogna ridicola è che io, Asterione, sia un prigioniero.” Paghiamo il debito con il libro che mi ha salvato la vita. A 18 anni, orfano da tempo di letture, penultimo anno del liceo classico, il prof. Minuti, docente di storia e filosofia per il quale provavo un’antipatia feroce mista ad ammirazione (ricambiata la prima, non credo la seconda) ci lesse, in aula, La casa di Asterione (da cui la citazione dell’incipit), splendido racconto contenuto nell’Aleph di Jorge Louis Borges. Nel giro di ventiquattr’ore tornai ad essere un lettore voracissimo e Borges e L’Aleph furono la mia seconda e definitiva iniziazione (cui seguì Finzioni, poi le raccolte di poesie e poi tutto ciò che trovavo disponibile che avesse anche solo richiamato il nome di Borges).
Trasgredisco alle regole (che credo chiedano solo narrativa) e inserisco le poesie di Caproni perché la poesia è stata, per me, una scoperta feroce, nel passaggio dalle letture scolastiche a quelle universitarie. Il giovane di provincia scopre di dover recuperare terreno arrivando nella città capoluogo, la Firenze dei primissimi anni ’90, per studiare Lettere (scelta effetto delle voraci letture degli ultimi due anni di liceo e della fila di belle studentesse alla segreteria per l’iscrizione, fila in cui conobbi Elena, ancora mia insostituibile amica e al tempo compagna di studi e mio amore segreto e non corrisposto). Sono anni bellissimi e confusi, pieni di volti, di storie d’amore intensissime di tre giorni e di letture onnivore, rabbiose, come a pagare un debito troppo vecchio. Anni in cui, ad esempio, conosco Simone mio fraterno amico e sodale di avventure culturali, narrative, editoriali e di progetti folli composti ancora oggi, quasi continuassimo ad avere vent’anni. Caproni e la sua poesia sono stati strazianti maestri di emozione (le poesie per Annina, la fallimentare ricerca di Dio, per citarne solo due) e il viatico per tantissima altra poesia (Penna, Strand e Montale rivisto e riletto rispetto all’antologizzazione scolastica per primi) per il tramite del Prof. Nicoletti e della straordinariamente colta, sino al limite dell’eccesso, prof.ssa Maura Del Serra più tardi mia deliziosa relatrice di tesi che mi invitava a Pistoia, a casa sua, a leggerle la mia tesi lentamente, lei, reduce da una recentissima operazione agli occhi (stanchi di troppe letture) perché potesse correggermela e non far perdere tempo alla mia urgenza (e non mi lasciava tornar via senza aver preso almeno due cioccolatini per il viaggio).
Poi ci fu il primo anno in cui esisteva l’Erasmus e la mia scelta eterodossa della destinazione, 1992, Losanna. L’Erasmus fu occasione di rottura di una tormentatissima storia d’amore, che è poi tornata a farsi sentire, in modo lieve o con violenza, tormentandomi gli anni successivi come qualcosa a cui manca un finale. Tra le letture quotidiane di quel tempo, diligentemente annotate in un diario della mia vita losannate, scelgo La chimera di Vassalli, iniziazione alla lotta contro lo stereotipo, il pregiudizio e la violenza che, sempre, li accompagna, attraverso la storia straziante di Antonia, una bellissima ragazza condannata come strega e arsa viva. Ancora oggi mi appare un efficace avvertimento contro ogni maschilismo, razzismo e una metafora dell’omofobia dilagante.
Le letture universitarie furono tante, tantissime e così piene di ebrezze, così legate alla vita quotidiana, frutto e causa di amori e amicizie, procedevano con il fare disordinato dell’ispirazione o dell’occasione quotidiana, alternandosi con letture sistematiche delle opere complete di autori di cui mi innamoravo (non per volontà formativa, ma per assecondare una passione), tanto più amate in quanto a volte sostituivano il pranzo, nella scelta su come destinare i pochi soldi disponibili ogni giorno. Ci fu Tabucchi tra gli amori del tempo e scegliendone uno non posso non nominare Sostiene Pereira (seppur leggermente successivo agli anni fiorentini): “Pereira si alzò e gli tese la mano dicendogli arrivederci. Perché gli disse quelle cose mentre avrebbe voluto dirgli tutt’altro, mentre avrebbe voluto rimproverarlo, magari licenziarlo? Pereira non sa dirlo. Forse perché il ristorante era deserto, perché non aveva visto nessun letterato, perché si sentiva solo in quella città e aveva bisogno di un complice e di un amico? Forse per queste ragioni e per altre ancora che non saprebbe spiegare. E’ difficile avere una convinzione precisa quando si parla delle ragioni del cuore, sostiene Pereira.” Tra le pagine di quel romanzo, del quale adorai, pochi anni dopo, la trasposizione cinematografica (uno dei pochi casi in cui il film non mi ha deluso) e la splendida interpretazione di Pereira di Mastroianni, trovai lo spunto per comprendere che il coraggio se uno non ce l’ha se lo può dare, quando vale la pena.
La mia educazione emozionale, giovane lavoratore in campo formativo, ma anche studente, alla seconda esperienza universitaria, ha un altro debito con una libreria e un libraio: Giampiero del Viaggiatore Immaginario è stato prodigo di consigli di lettura e interminabili discussioni su un singolo romanzo, sempre orientate su quelli che piacevano a entrambi, mai a perdere tempo per esercitare il pur lecito diritto di stroncatura. Tra le tante letture che dovrei citare per rendere conto di quel rapporto, scelgo L’imperatore di Portugallia, una storia bellissima e struggente, vera e propria educazione ai sentimenti e alle emozioni: “Cominciò anche a intuire cosa gli era mancato per tutta la vita. Perché chi non sente battere il cuore nel dolore o nella gioia non può di certo essere considerato un vero essere umano”.
Brunetto Salvarani mi aveva fatto conoscere, molti anni prima, alcuni autori, compreso un allora ancora poco noto autore italiano, Erri de Luca. Dalle prime letture (rammento di aver iniziato da In alto a sinistra) non l’ho abbandonato per un quindicennio almeno. Nel 1999 esce Tre cavalli, romanzo che mi fulmina e che mi spinge a scrivere una lettera, nel frontespizio del libro, all’autore (lettera mai spedita) in cui ammettevo la consonanza non conosciuta (quello scrittore che quando lo leggi capisci che c’è già qualcuno che ha detto, meglio, ciò che volevi dire tu). Una frase tra le tante sottolineate nell’edizione di allora: “Ammetto il fiacco per la notte sbattuta e scaccio il pensiero di rimandare la seconda volta da Laila, ho a noia i risparmi. […] Strano sapersi perduti tutti i giorni e non dirsi mai addio. Oggi quel saluto scambiato mi basterebbe. A dimenticare.”
“Fu in quei giorni che gli apparve Jack lo Squartatore”, un incipit che rende impossibile non proseguire è il marchio di fabbrica di Cinebrivido, primo dei romanzi di José Pablo Feinmann, letto dietro appassionato consiglio di Sergio, espertissimo e appassionato di cinema, compagno di banco delle superiori e, ancora oggi, amico tra i pochissimi che segnano un’esistenza intera, in un rapporto scritto con alti e bassi di entrambi, ma con la cenere sotto sempre accesa. Dopo questo, Feinmann è stato acquistato in blocco e letto integralmente, siamo intorno ai trenta anni.
Il salto è ampio, ma ho già un po’ barato sul numero, dunque debbo attenermi alle indicazioni. Il salto porta intorno ai trentacinque ed è il tempo di Ogni cosa è illuminata di Jonathan Safran Foer, romanzo snobbato, per qualche anno, perché sulla bocca di tutti, e poi letto con assoluto divertimento e coinvolgimento, fino a parlare, per settimane, scherzosamente, nell’improbabile lingua del protagonista (l’omaggio a Massimo Bocchiola, traduttore che riesce mirabilmente a rendere in italiano l’inglese sgrammaticato e molto personale del russo Alex è doveroso). Credo di poter collocare la lettura nello stesso anno in cui nasce Elia, mio primo figlio. Il romanzo di una ricerca, della memoria, dell’odio e dell’amore, della tragedia e della farsa e delle due miste insieme. “Il mio nome, per la legge è Alexander Perchov. Ma tutti i miei amici mi chiamano Alex, perché è una versione del nome più flaccida da pronunciare. Mia madre mi chiama Alexi-basta-di-ammorbarmi perché sempre la ammorbo. Se volete sapere perché sempre la ammorbo, è perché sempre sono in altri posti con amici, e seminando tanta moneta e eseguendo così tante cose che possono ammorbare mia madre. Mio padre mi chiamava Shapka per il cappello di pelliccia che calzavo in testa anche nei mesi d’estate. Poi ha smesso di dirmi così perché gli ho ordinato di smettere di dire così. Mi sembrava un nome bambinoso, e io invece mi sono sempre pensato un uomo molto potente e inseminativo. […] Ho anche un minuscolo fratellino, che mi chiama Alli. Io non sfagiolo troppo questo nome, ma sfagiolo molto lui, e allora okay, gli permetto di darmi il nomuncolo Alli”.
Mi rendo conto che ho fatto dei salti e delle scelte parzialissime, ho già pronto, mentalmente, un nuovo elenco, in cui non comprenderei nessuno dei libri sopra ricordati, ma per ora mi gusto questa definizione di me, costruita attraverso i romanzi scelti per questo elenco. Sicuramente ho peccato di ingratitudine verso una trentina di romanzi che, professionalmente e per il lavoro fatto intorno alle storie, vantano più di un credito nei miei confronti.
Chiudo con una lettura di pochi mesi fa, Vertigo, un tardivo recupero di uno dei romanzi non ancora letti di Paul Auster, autore conosciuto moltissimi anni fa grazie a un regalo di Alessandro (anche lui tra i pochi che rimangono). Credo che il piacere immenso datomi dalla lettura di questo romanzo possa essere collegato anche ai ruoli professionali che rivesto o alla rilettura che mi ha permesso, metaforicamente, delle tappe attraverso le quali ho costruito un’identità. “Avevo dodici anni la prima volta che camminai sulle acque. A insegnarmi il trucco fu l’uomo vestito di nero e non sarebbe da me far finta di aver imparato nel giro di una notte. Maestro Yehudi, che mi aveva trovato quando di anni ne avevo solo nove, ero orfano e vagavo per le strade di Saint Louis mendicando spiccioli, mi aveva addestrato per tre anni di seguito prima di lasciarmi esibire i miei numeri in pubblico.”
Infine… ah!, ne ho dimenticato un altro… il prossimo.
Riferimenti in ordine cronologico-autobiografico (non editoriale) rispetto al racconto fatto sopra nelle edizioni o ristampe in cui li ho letti (o riletti):
Rudolf E. Raspe, Gottfried A. Burger, Le avventure del Barone di Münchausen, Biancoenero edizioni, 2010.
Jack London, Martin Eden, Rizzoli, 1979.
Herman Melville, Billy Budd, 1989 (traduzione di Eugenio Montale: ricomprato dopo aver smarrito l’edizione in cui l’avevo letto).
Jorge Luis Borges, L’Aleph, Feltrinelli, 1986.
Giorgio Caproni, Poesie 1932-1986, Garzanti, 1991.
Sebastiano Vassalli, La chimera, Einaudi, 1992.
Antonio Tabucchi, Sostiene Pereira, Feltrinelli, 1995
Selma Lagerlöf, L’imperatore di Portugallia, Iperborea, 1997.
Erri De Luca, Tre cavalli, Feltrinelli, 1999.
José Pablo Feinmann, Cinebrivido, Marcos y Marcos.
Jonathan Safran Foer, Ogni cosa è illuminata, Guanda, 2006.
Paul Auster, Mr Vertigo, Einaudi, 1995.