
L’uso dei dati, spesso strumentale e approssimativo, è abbastanza diffuso e ricorrente nel discorso pubblico sulla scuola, e in special modo quando si tratta di attribuire le responsabilità nel garantire livelli adeguati di conoscenze enciclopediche e di competenza linguistica. Il caso più rilevante si ebbe nel 2017. Avviate da una lettera denuncia pubblicata dal “Gruppo di Firenze per la scuola del Merito e della Responsabilità”1, le polemiche non si placarono neppure alla morte di Tullio De Mauro2. Il quale, del resto, ha combattuto a lungo contro queste derive, spesso pretestuose, cui opponeva due validi argomenti e due proposte. Ribadiva infatti come spesso in questi casi l’uso distorto dei dati dipendesse da una mancanza di conoscenze e di competenze reali sui fenomeni linguistici e le loro implicazioni storiche e sociali, e allo stesso tempo ricordava i risultati comunque ottenuti dalla scuola pubblica, a partire dai dati di analfabetismo e di scolarità dell’immediato dopoguerra. Inoltre, non si stancava di indicare due direttrici di intervento: una qualificata preparazione linguistica dei docenti e la realizzazione di modalità adeguate di educazione degli adulti. Si tratta di due questioni ampiamente disattese.
D’altro canto, De Mauro non si stancava mai né di segnalare i troppi che uscivano dalla scuola di base senza aver acquisito competenze adeguate a vivere la propria cittadinanza, né di attirare l’attenzione sui dati di analfabetismo di ritorno in età post-scolare, che costituisce un fenomeno certamente più rilevante e preoccupante del numero delle parole possedute nelle diverse fasce di età o delle reali difficoltà di comprensione e scrittura.
Opinioni e conoscenze
Nel prendere in considerazione l’ambito delle competenze linguistiche, è bene avanzare due precisazioni che, per quanto possano apparire ovvie, non è mai superfluo ribadire.
Spesso – e vale anche per alcuni dei dati alla base del recente rilevamento Censis e dei relativi commenti – ciò che suscita scandalo e riprovazione è il mancato possesso di informazioni e conoscenze di base ritenute invece essenziali. È però opportuno verificare quanto risposte e affermazioni sbagliate riguardino opinioni, false conoscenze, interpretazioni del tutto erronee di eventi storici e fenomeni scientifici. In questi casi si tratta ovviamente di carenze che trascendono il solo dato linguistico, e chiamano in causa l’inconsistenza e l’evanescenza degli apprendimenti disciplinari. In questo campo, oltre tutto, l’incidenza della comunicazione sociale, nel suo complesso, è assai più rilevante. Discorso analogo va fatto per le conoscenze, quelle che un tempo si definivano nozionistiche o enciclopediche, e che spesso vengono sondate con esiti imbarazzanti. Qui gioca anche la difficoltà di circoscriverle, per l’estrema apertura quantitativa e qualitativa da cui la scuola stessa è stata investita. Se provassimo a misurare la quantità di quelle presenti nell’insieme dei libri di testo di una terza “media” degli anni Cinquanta, Settanta, Novanta, e poi fino a oggi, credo che avremmo la netta percezione di un incremento difficile da contenere.
Inoltre, se si affrontano le delicate questioni relative ai processi sociali di costruzione del sapere, appare abbastanza incongruo parlare di conclamata caducità delle informazioni e delle conoscenze, di importanza più dell’imparare a imparare che della quantità di conoscenze apprese, di “teste ben fatte” come finalità strategica rispetto alla “testa ben piena”, di capacità di ricerca delle informazioni rispetto al loro possesso ecc., e poi lamentarsi se studentesse e studenti, anche verso la fine del loro iter scolastico, palesano lacune su fatti e concetti ritenuti parte fondante del patrimonio di cittadinanza, anche se tale patrimonio è sempre più difficile da individuare e soprattutto da circoscrivere.
Come le scatole cinesi
Fatte queste delimitazioni di campo, resta evidente che sia i rilevamenti nazionali e internazionali, sia le percezioni che alimentano le convinzioni dei docenti in contesti diversi (solitamente in ingresso rispetto alla fascia scolastica precedente) denunciano un progressivo abbassamento dei livelli di competenza linguistica, in particolare rispetto al passato, anche se in questi casi si tende a enfatizzare il passato in modo un po’ troppo generoso, o addirittura mitico. Dove vengono compiute analisi metodologicamente coerenti delle scritture scolastiche, i risultati sono molto diversi e più articolati3.
A questo proposito, è opportuno chiamare in causa i diversi contesti coinvolti nei processi di scolarizzazione. Li possiamo immaginare come rappresentati da una serie di scatole cinesi, dalle più ampie e generali, a quelle più specifiche. Non per assolvere o relativizzare l’importanza e le responsabilità di ciascuno di tali ambiti, quanto per metterne in evidenza le peculiarità, che ancorché intrecciate implicano anche responsabilità e soprattutto necessità di intervento diverse.
La comunicazione sociale e il compito della scuola
Certo è che, in conseguenza di una pluralità di fattori relativi alle modalità e ai contesti d’uso delle comunicazioni orali e soprattutto scritte, la lingua si sta sensibilmente modificando e allontanando da un ipotetico modello di scrittura formale adeguata al contesto, coerente e corretta, che forse esiste più nel rimpianto di natura scolastica che nella realtà comunicativa. Del resto, i processi cui sono stati sottoposti il leggere e lo scrivere in questi ultimi decenni non possono non aver inciso profondamente sulla consistenza e le caratteristiche della testualità scritta a tutti i livelli d’uso e di padronanza. Si tratta di fenomeni che riguardano la natura (per alcuni la qualità) delle diverse forme di testualità, non solo a livello lessicale, ma anche morfosintattico e di coerenza testuale, oltre che pragmatica. Senza contare che tutto sta già per essere nuovamente (s)travolto dall’uso delle intelligenze artificiali generative!
In un simile contesto fluido e abbondantemente vario, alla scuola spetterebbe ancora il compito di promuovere e far acquisire la dimensione formale degli atti linguistici e delle pratiche discorsive, senza però imporne una visione e senza che le pratiche risultino rigide, statiche, insensibili ai mutamenti in atto e ai contesti d’uso. Soprattutto, alla scuola tocca il compito (forse più alle discipline linguistiche che a quelle per così dire tematiche) di guidare allieve e allievi, a partire dal rispetto del loro patrimonio linguistico, sia di origine sia esercitato nei gruppi ristretti, verso forme interpersonali e sociali di comunicazione efficace, senza per questo stigmatizzare o condannarne come inferiori le forme più personali, familiari o di gruppo. L’assenza, anzi la condanna di questa prospettiva, tra l’altro, è una delle concezioni meno accettabili, dal punto di vista socio- e psicolinguistico come da quello educativo, dell’impostazione data alla lingua e alle finalità del suo apprendimento dalle Nuove Indicazioni per il primo ciclo rilasciate a marzo 2025.
Il ruolo delle altre discipline e dell’italiano
C’è un’affermazione importante, contenuta nella tesi VII delle “Dieci Tesi per l’educazione linguistica democratica”4 e poi da lì trasmigrata prima nei Nuovi programmi per la scuola media del 1979 e poi via via in tutte le successive indicazioni: riguarda la «necessità di coinvolgere nei fini dello sviluppo delle capacità linguistiche non una, ma tutte le materie, non uno, ma tutti gli insegnanti». Si tratta di un’affermazione tanto fondamentale quanto, anche questa, disattesa. Tale impostazione comporterebbe che in tutte le materie ci si occupasse non tanto della correttezza formale dell’uso della lingua, quanto del fatto che ciò che viene letto, studiato e talvolta persino ripetuto sia effettivamente capito. È una questione che riguarda il significato delle parole, i processi di concettualizzazione, ma anche i rapporti logici, la struttura tematica dei testi, l’organizzazione dei contenuti. Nelle diverse materie non ci si deve preoccupare di come si scrive, ma soprattutto di che cosa significa o di come viene espresso ciò di cui si parla e costruisce o non costruisce sapere. Troppo spesso, invece, nelle diverse materie, si accetta che vengano usate parole senza che a queste corrisponda la reale comprensione di ciò che significano – magari solo in quella disciplina o in quel contesto, perché altrove hanno altri significati.
In questo quadro, all’italiano spetta ovviamente il ruolo di curare particolarmente quella transizione dall’uso personale verso l’uso sociale, di guidare e via via incrementare le abilità ricettive (ascoltare, leggere e capire) e produttive (parlare, scrivere, farsi intendere) in una pluralità di forme e per scopi e in contesti diversi. Diceva De Mauro (parafrasando Rodari): «Dare tutti gli usi della lingua a tutti».
Ovvero: all’italiano tocca il compito di integrare, arricchire, rendere più ampi e adeguati, ma anche per certi versi normalizzare, gli usi linguistici, nella dialettica assai complessa e flessibile fra norma e uso, fra la lingua e il linguaggio, come potenzialità, ma anche i linguaggi, al plurale, come polifonia di usi e di scopi. Ed è necessario farlo in almeno due direzioni, entrambe importanti: migliorare le prestazioni linguistiche diffuse, superandone alcune incongruenze e carenze; riuscire a migliorare gli esiti e le prestazioni delle fasce di popolazione scolastica, che continuano ad attestarsi sui livelli più bassi dei rilevamenti nazionali e internazionali, ritenuti non adeguati all’esercizio pieno della cittadinanza.
In quest’ottica andrebbe anche analizzato il delicato ruolo della componente letteraria dell’insegnamento dell’“italiano”, che troppo spesso, soprattutto dagli albori di questo secolo, si è nuovamente allontanata dal coerente esercizio del binomio che dovrebbe caratterizzare (in particolare nella scuola di base) l’educazione linguistico-letteraria, a favore di scelte che certamente non consentono a un coerente approccio alla testualità letteraria di contribuire all’incremento delle competenze d’uso della lingua, come invece è ampiamente nelle sue potenzialità.
Il posto del lessico e delle grammatiche
Il compito specifico dell’italiano come “materia”, quello di incrementare le competenze d’uso della lingua, chiama in causa due dimensioni specifiche, che le sono peculiari e che vengono spesso evocate, quando si ragiona di livelli di competenza linguistica e se ne denuncia il declino: arricchire il patrimonio lessicale, e parlare e scrivere in modo coerente, adeguato alla situazione e corretto, cosa che per alcuni viene circoscritta al rispetto delle regole grammaticali.
Spesso, nel delineare le crisi di risultati della scuola, si fa riferimento alle carenze lessicali. Tale preoccupazione ha fatto sì che nelle Indicazioni attualmente in vigore (quelle del 2007-2012) all’incremento lessicale venisse riservata un’attenzione particolare e specifica, ma non fino al punto da far pensare che esso possa avvenire in modo separato dall’esercizio delle altre abilità e competenze linguistiche. Sarebbe infatti opportuno, soprattutto nella scuola primaria, lavorare molto di più sulla dimensione semantica, sui meccanismi di costruzione del lessico e sulle relazioni concettuali e logiche fra parole, puntando all’incremento e alla flessibilità lessicali. Ma è importante tener conto del fatto che l’acquisizione e il controllo reale del lessico avvengono in contesto d’uso e con un forte legame con i processi di significazione e la dimensione tematica. Le parole e i loro significati si apprendono soprattutto usandole in modo appropriato e capendo che cosa significano. E in tal senso il ruolo delle diverse discipline, come si è detto, è essenziale.
E arriviamo all’altro nodo perennemente sollevato: il posto della grammatica e l’illusione coltivata da molti (e da sempre) che il suo studio rinforzi e consenta di migliorare le competenze d’uso. Il rovescio di questa affermazione è all’origine delle molte accuse rivolte all’educazione linguistica democratica: aver allentato l’attenzione nei confronti della grammatica tradizionale avrebbe di fatto penalizzato e ridotto la correttezza formale della lingua usata a scuola. Può anche darsi che ci sia stato negli ultimi anni un allentamento rispetto al rigore normativo, ma il degrado linguistico non è assolutamente imputabile all’abbandono della grammatica tradizionale e all’assunzione in sua vece o al suo posto della riflessione sulla lingua attraverso l’uso. Semplicemente perché questo abbandono non è mai avvenuto, e l’idea di lingua e del suo apprendimento espressa nelle “Dieci Tesi” non è mai diventata prassi diffusa nelle scuole5. Soprattutto, si dovrebbe davvero provare a fare della riflessione linguistica il rinforzo delle competenze d’uso, dell’esercizio delle quattro abilità, in modo che la consapevolezza metalinguistica divenga la reale ed efficace interfaccia fra comprensione e produzione, esplicitando e rinforzando le pratiche di comprensione, e orientando e guidando l’autocorrezione delle attività produttive. Che cosa cambierebbe se, oltre a chiedersi quale e quanta grammatica fare, ci si interrogasse sul perché e soprattutto sul quando e come farla, attuando una pratica più organica e integrata delle attività di comprensione/riflessione/scrittura6? Del resto, sulla scelta del modello grammaticale, è significativa la recente tendenza di molta parte di docenti e di chi fa ricerca a spostare le pratiche didattiche dalla grammatica tradizionale ad altre grammatiche, che premino un approccio, di natura semantica e cognitiva, più funzionale alla comprensione e all’acquisizione profonda dei meccanismi linguistici.
Da qui la necessità di sostituire l’ubbidienza o l’adattamento a una concezione statica della lingua, alla norma e alle regole formali con la consapevolezza delle varietà d’uso, della necessità di adeguarle ai diversi contesti, oltre che al dialogo con l’altro da sé.
Una questione di fondo
La questione più grave resta però la necessità di migliorare le prestazioni degli allievi e delle allieve con maggiori difficoltà, che apre a problematiche ancora più complesse. Anzitutto, in tal senso, ci si dovrebbe chiedere quale incidenza abbia la concezione delle finalità e della natura stessa dell’italiano da veicolare e far apprendere a scuola. Forse bisognerebbe ritornare all’invito, assai presente attorno alle “Dieci Tesi” e ai programmi della scuola media del 1979, ad aprirsi a usi diversi della lingua che possano maggiormente coinvolgere anche chi la lingua non la userà mai per mestiere, ma per vivere ed essere cittadino/a.
La scuola ha invece continuato a perseguire una concezione assai scolastica ed elitaria della lingua e dei suoi usi, escludente anziché inclusiva, continuando a sanzionare chi, provenendo da contesti meno acculturati, ne farebbe e potrebbe farne un uso diverso e, nel farlo, riuscirebbe ad appropriarsene in modo più adeguato anche a usi più complessi. In quest’ottica, andrebbe affrontato in modo diverso il modo di rapportarsi con chi palesa carenze medie o gravi negli usi linguistici.
C’è una frase, nelle Indicazioni del 2007, che evoca scenari difficili da affrontare: «Adottare soluzioni adeguate nei confronti delle diversità, perché non diventino disuguaglianze», e che fa ritornare in mente l’insegnamento di Don Milani: «Non c’è nulla di più diseguale che fare parti eguali fra diversi». Ecco: se c’è un ambito in cui la scuola di questi ultimi cinquant’anni ha fatto indubbi progressi, ma non è ancora riuscita a raggiungere i risultati sperati, è proprio nei confronti delle diverse e variegate difficoltà di apprendimento. Alla cui base le differenze d’uso della lingua sono decisive. Più che riuscire ad affrontarle, sono cresciute esponenzialmente le modalità e i criteri di riconoscerle, classificarle, certificarle, ed è cresciuta anche la conoscenza delle loro estreme varietà e cause, ma tutto questo non ha sempre reso più facile superarle.
In tal senso sarebbe davvero importante trovare il modo, o i modi (perché certo ce n’è più d’uno), all’interno di finalità omogenee e qualificanti per tutti, di individualizzare alcune fasi e momenti dei processi di apprendimento, realizzando attività e modalità mirate e funzionali al potenziamento del patrimonio linguistico di ciascuna/o e del suo esercizio, senza che questo significhi ghettizzare, sancire e istituzionalizzare le diversità o, peggio, anticipare scelte e percorsi di scuola e di vita disuguaglianti. Anzi, affinché accresca l’esercizio consapevole della lingua e della costruzione condivisa del sapere.
Ma una scuola organizzata attorno alla classificazione dei risultati, che usa la valutazione per misurare e sanzionare livelli, anziché per aumentare la conoscenza, la consapevolezza e la fiducia nei propri mezzi, non riuscirà mai a combattere e vincere le difficoltà di apprendimento. Rischia solo di perpetuare le condizioni che le causano.
Anche per questo preoccupano le recenti proposte in discussione. Puntare, come intendono fare le Nuove Indicazioni 2025, tutto sulla personalizzazione e sul perseguimento dei “talenti” individuali, e soprattutto affermare e pensare davvero di poter combattere l’analfabetismo o addirittura la dispersione scolastica reintroducendo il latino, o tornando a una grammatica normativa o alla sintassi e al riassunto (evocati da sempre come mitiche panacee taumaturgiche e non come difficili pratiche didattiche) esporrà la scuola a problemi gravi e seri. E, forse, all’esito opposto: la radicalizzazione dell’esclusione di chi palesa differenti difficoltà di apprendimento e di risultati.
Note
- Si veda all’indirizzo https://gruppodifirenze.blogspot.com/2017/02/contro-il-declino-dellitaliano-scuola.html.
- In quella circostanza, Ernesto Galli Della Loggia riprese alcune sue precedenti invettive nei confronti dello stesso De Mauro, di Don Milani e dell’educazione linguistica democratica, accusandoli di essere colpevolmente all’origine del degrado: si veda il suo articolo del 7 febbraio 2017 apparso sul «Corriere della Sera» e intitolato La disfatta della scuola italiana (c’entra anche Tullio De Mauro).
- Cfr. M. Ruele, E. Zuin (a cura di), Come cambia la scrittura a scuola. Rapporto di ricerca, IPRASE, 2020.
- Le “Dieci tesi” si leggono qui: https://giscel.it/dieci-tesi-per-leducazione-linguistica-democratica/.
- Cfr. M. Ambel, Il posto delle grammatiche, Giscel, 16 febbraio 2025, consultabile all’indirizzo https://giscel.it/wp-content/uploads/2025/02/Ambel-Il-posto-delle-grammatiche.pdf.
- Cfr. M. Ambel, C. Provenzano, Comprensione, riflessione, scrittura: per un approccio integrato e strategico, in L. Cignetti, S. Fornara, E.D. Manetti (a cura di), La scrittura nel terzo millennio, Atti del convegno di Locarno, 18-20 novembre 2021, Quaderni del Giscel V, Cesati, Firenze 2023, pp. 17-32.