Il Ministero dell’istruzione e del Merito ha presentato lo scorso mese la bozza di un nuovo Documento che andrà a sostituire, a partire dall’anno scolastico 2026/2027, le Indicazioni Nazionali per il curricolo della Scuola dell’infanzia e del Primo Ciclo d’istruzione del 2012. Balza subito all’occhio l’assenza, nel titolo stesso del Documento, della parola “curricolo”, che ricompare però all’interno e con una poco chiara funzione, più che altro riconducibile a un “assemblaggio” di contenuti, a carattere fortemente prescrittivo, esplicitati a titolo di “obiettivi di apprendimento”, dunque difficilmente contestualizzabili.
Entrando nel vivo del testo, già a partire dalle articolate premesse, a tratti ridondanti, in uno stile palesemente (o volutamente) retorico, si avverte un’epistemologia di fondo decisamente orientata a quello che potrebbe definirsi un occidentalcentrismo, che prende le mosse da una dissertazione sul termine e, di conseguenza, significato di persona: «Il termine ‘persona’ ha radici storico-culturali occidentali», che riconduce alla cultura greca e romana, con tanto di esplicazione di nota a piè di pagina sull’etimologia del lemma. L’affermazione non lascia margini di obiezione, spazzando via ogni altro significativo rinvio del valore del soggetto nelle antiche civiltà o, volendo ripercorrere a ritroso la storia dell’umanità, quello di determinazione di individuo già a partire dalle prime manifestazioni e organizzazioni sociali preistoriche, anche rintracciabili negli stessi riti e culti a carattere funerario, in cui la persona acquisiva una dimensione collettiva, spirituale, religiosa e cosmica.
«Solo l’Occidente conosce la storia», così come «Non è un caso che le religioni, come sistemi di rappresentazione del mondo interiore, si siano per lo più espresse e condivise – soprattutto in Occidente – attraverso l’arte, figurativa ma anche poetica o musicale, come accade in molte culture non occidentali», sono frasi che sembrano voler cancellare, con un colpo di spugna, e a cuor leggero, l’intera storia culturale dell’umanità – da Oriente a Occidente. E sulla scia della ridondante ricercatezza terminologica, “Occidente” ricorre sovente, lasciando ampio dubbio interpretativo, quando, nella chiosa dialettica del concetto di “Libertà”, viene fuori una sorta di convenzionale “asse” culturale, di esclusiva direzione storica, “Atene-Roma-Gerusalemme”: «La libertà è il valore caratteristico più importante dell’Occidente e della sua civiltà sin dalla sua nascita, avvenuta fra Atene, Roma e Gerusalemme». La presenza di Gerusalemme, oltre che geograficamente posta convenzionalmente a Oriente, pone l’interrogativo se l’affermazione sia fattivamente riconducibile a una correlazione ritualistico-religiosa o storico-geografica; tuttavia, il Documento non fornisce chiarificazione con dovizia certosina come per il termine “persona”, lasciando irrisolto per chi legge e per chi insegna il dubbio su cosa sia concretamente “Occidente” e quali spazi geografici e culturali lo debbano effettivamente rappresentare.
Ci si chiede quindi a quale paradigma di società si faccia riferimento quando nel documento troviamo: «Si va a scuola per conquistare l’autonomia di essere e la competenza del fare e dell’agire, mettendosi al servizio della costruzione di una società aperta e rispettosa delle diversità e del pluralismo del pensiero», considerando l’evidente messa in discussione di un modello educativo e di una programmazione politica transculturale e interculturale – concetti, questi ultimi, che affondano le proprie radici nel pluralismo valoriale delle scienze umane: educazione alla pace, sensibilità per le differenze, differenza come ricchezza, dialogo e confronto con i patrimoni culturali diversi. In questo quadro, intercultura e transcultura si configurano come un sapere a senso unico, statico, “occidentalizzato”, a tratti riluttante di aprirsi al dialogo e al confronto con altri saperi: un’inclinazione pedagogica compensativa, di tipo assimilazionista, in cui si afferma sostanzialmente la presenza di una cultura dominante – superiore – appannaggio dell’“Occidente”, a discapito di ciò che è diverso, alternativo, subalterno.
«Le scuole del primo ciclo di istruzione permettono inoltre, grazie all’educazione alla libertà, lo sviluppo del senso morale e la comprensione del principio di autorità, conquiste interiori dell’uomo libero». In una società globalizzata e complessa, la libertà dovrebbe costituire il nucleo fondante del principio di autodeterminazione dell’individuo. Il concetto di morale, che rimanda a una visione acritica caratterizzata per lo più da prototipi e stereotipi, potrebbe pregiudicare lo sviluppo critico di una “dimensione etica”, più riflessiva e argomentativa, che sappia invece interrogarsi sul “senso del bene” e che non sia la reprimente conseguenza di dettami del “potere” inteso come autoritarismo ordinativo – riprendendo quello che Friedrich Nietzsche, ne La genealogia della morale, metteva in discussione in quanto morale tradizionale, definendola come costruzione storica e strumento, appunto, di potere: «Non esistono fatti morali, ma solo interpretazioni morali».
E ciò è non troppo velatamente sotteso, se ci sofferma su quanto ulteriormente esplicitato nella bozza, quando si legge che la scuola «resta la sede principale per la trasmissione di conoscenze legittimate in senso storico-culturale». La scuola dal carattere trasmissivo che legittima le conoscenze sostituisce infatti la scuola a carattere formativo, che realizza comunità educante in termini di inclusione, personalizzazione e individualizzazione degli apprendimenti. L’unicum del sapere, il continuum delle educazioni, ben focalizzate e stratificate nelle Indicazioni nazionali per il curriculo dell’Infanzia e del Primo Ciclo d’Istruzione del 2012, lasciano ora il posto a un’organizzazione fortemente strutturale a carattere disciplinare, in cui riecheggia, come uno spettro del passato, la trasmissività didattica a discapito dei processi di apprendimento, che pongono al centro del proprio agire la persona. Della «scuola di tutti e di ciascuno» delle Indicazioni del 2012 sembra non esservi traccia.
Riferendosi all’utilizzo della lingua italiana e alla sua ricchezza si legge: «La scuola ha il compito di valorizzare questo patrimonio, trasmettendo nelle forme riconosciute come legittime», e ancora: «finalità dell’insegnamento utile e intelligente della grammatica», «tappa necessaria, come si riconosce da secoli, nel percorso di apprendimento del ‘leggere, scrivere e far di conto’». Ma il salto all’indietro diventa tangibile e ancora più papabile quando, in relazione alla studio della letteratura, viene chiarito che: «al centro dell’apprendimento devono stare i testi, e sui testi vanno saggiate e affinate le capacità di comprensione e di interpretazione degli studenti». Il metro di misura della persona è l’intelligenza; la complessità dell’individuo ridotta a un indice, quello di intelligenza, per l’appunto, per cui «leggere testi che contengono idee intelligenti aiuta chi li legge a diventare intelligente a sua volta». La domanda da porre a questo punto è: quali sono questi “testi intelligenti”? Chi stabilisce quale testo è “intelligente” e quale non lo è? Qui il testo fornisce una prima spiegazione: «l’insegnante dovrà essere in grado di valutare quali siano quelli più adatti agli studenti che ha di fronte». Perché gli studenti, secondo questo modus operandi, stanno esattamente lì, di fronte, al di là della cattedra: ristabilito l’ordine gerarchico, si somministra sapere e, soprattutto, si specificano contenuti. Ciò che effettivamente viene presentato come obiettivi di apprendimento si traduce nel concreto in un elenco di conoscenze, di contenuti da imparare. Insomma: un programma camuffato. Le competenze, la didattica per competenze, le competenze chiave europee, il sapere agito, la mobilitazione complessa delle risorse dell’individuo, le capacità di operare in contesti nuovi, lasciano il posto a abilità programmatiche che si esauriscono nello svolgere compiti conosciuti, con le studentesse e gli studenti “addestrati”, dunque, a fare qualcosa. Dai “Traguardi per lo sviluppo di competenze” delle Indicazioni nazionali 2012, in cui l’utilizzo dell’indicativo alla terza persona sottolinea il carattere di centralità dell’alunno nel processo di apprendimento, protagonista del suo sapere, che costruisce, in un meccanismo di interscambio dinamico, conoscenze, abilità e competenze, alle “Competenze attese”, ciò che lo studente deve aver “imparato”, riportato con un impersonale modo infinito del verbo.
Gli aspetti poliedrici della competenza, in cui convergono i piani cognitivo, pratico e procedurale, metacognitivo e metodologico, sociale e relazionale, personale e etico, si convertono in una performance integrale, che non indaga e non tiene fattivamente conto dei diversi stili cognitivi e di apprendimento, né conosce il soggetto che apprende, o calibra le strategie di intervento. Nelle nuove Indicazioni non si rintraccia la rappresentazione di regia del docente che costruisce ambienti di apprendimento inclusivi, laddove per ambiente di apprendimento non si intende lo spazio fisico. Mentre nel testo delle nuove Indicazioni il concetto di “ambiente di apprendimento” si trova in una sola parte, riferito alla biblioteca: «è bene che l’insegnante li aiuti a prendere confidenza con questo fondamentale ambiente di apprendimento».
Il richiamo alle otto Competenze chiave del Consiglio d’Europa si esaurisce in un’elencazione che non trova una dinamica e dialettica declinazione nell’impianto concettuale del documento. Come dovrebbe tradursi la prescrittività dei contenuti nell’elaborazione di un curricolo che rispetti i principi di autonomia, inclusione e successo formativo? Il compito della scuola, che è quello di congiungere il curricolo formale partendo dalle conoscenze autonome, organizzando le esperienze pregresse, fornendo metodi e chiavi di lettura (non liste di “libri intelligenti”) per permettere l’esperire in contesti relazionali significativi, come potrà assolversi, con questi presupposti?