Che Paleoestetica di Michele Cometa (Raffaello Cortina, 2024) sia un libro straordinario, addirittura imprescindibile, è subito evidente: basta sfogliare l’indice, iniziare le prime pagine, o leggere l’eloquente quarta di copertina, scorrere le prime recensioni (di Anna Li Vigni, Dario Cecchi, Franco Nasi, Ivana Margarese), o ancora ascoltare la lunga e articolata intervista di Marzia Tomasin all’autore, che offre un’efficace sintesi del volume.
Il libro si apre con un capitolo intitolato Tua res agitur. «È cosa che deve interessarti», si legge nell’epistola di Orazio da cui è tratta quest’espressione, «se brucia la casa vicina» («Nam tua res agitur, paries quum proximus ardet»). Perché dovrebbero riguardarci gli argomenti trattati in queste prime pagine, che ruotano intorno ai problemi interpretativi delle incisioni rupestri presenti nella Grotta dell’Addaura, sul fianco del Monte Pellegrino, proprio alle spalle della città di Palermo? Che cosa, di queste incisioni realizzate 11mila anni or sono, fa pensare all’autore che sia proprio un nostro problema?
Intanto, l’esperienza della visita alla Grotta dell’Addaura e la lettura della messe di interpretazioni più o meno convincenti o bizzarre di quelle incisioni rupestri, ci dicono che quelle immagini funzionano ancora oggi anche se non siamo in grado di comprenderne il significato. Anzi, sembra che di fronte alla tentazione di interpretarne il contenuto e di dare un senso alle storie che apparentemente ci vogliono raccontare, sia preferibile sospendere il giudizio e lasciarsi guidare dalle immagini stesse, o, meglio, dalla conformazione della Grotta, dagli effetti di luce, dagli odori e da tutti quelli elementi che contribuiscono a orientare lo sguardo in modo da suscitare una reazione estetica.
Si legge a pagina 40:
Non c’è riproduzione, per quanto affidabile, che possa restituire la prospettiva da cui queste immagini devono essere inquadrate, i giochi delle ombre e il movimento delle superfici, oltre agli altri dati sensoriali che determinano la loro ricezione insieme all’occhio: la temperatura, la nostra postura, la dimensione sonora della cavità.
La questione dell’esperienza emotiva e cognitiva così come viene chiarita in queste pagine è alle fondamenta dell’idea stessa di «paleoestetica», un campo di ricerca che per essere compreso richiede di uscire dal punto di vista della tradizione occidentale, e di guardare al fare e al godere l’arte da un’altra prospettiva, svincolata dalle gabbie interpretative che ci impongono le nostre discipline accademiche (la storia dell’arte, o l’estetica filosofica) e piuttosto orientata al contesto della nostra storia evolutiva. Per capire la paleoestetica, suggerisce l’autore, è opportuno adottare uno «sguardo naïf» (p. 47), ingenuo, capace di far emergere il filo rosso che unisce quelle incisioni ai nostri corpi.
L’“ingenuità” del nostro spettatore non si fonda sul fatto che lo sguardo, il vedere sono fatti eminentemente bioculturali, in cui la fisiologia dell’occhi e i “modi di vedere” – per dirla con John Berger – contribuiscono a fondare i regimi scopici che articolano il fare-immagini. Ma anche, e soprattutto, sul fatto che ogni immagine (e ogni manufatto artistico), come ci ha insegnato la prospettiva fenomenologica, costruisce una proiezione del Sé, una metonimia del Sé, e non nel senso di una mera protesi. Attraverso l’immagine di il Sé si costituisce, si fonda in una relazione in cui l’alienazione è solo l’altra faccia della costruzione della soggettività.
Una prospettiva ingenua, dunque, oltre a essere la chiave per riattivare le immagini attraverso nuove esperienze estetiche, consente di mettere a fuoco la posta in gioco di tutto il ragionamento: «In gioco – si legge a pagina 60 – non c’è solo una questione di percezione, né semplicemente quello che da moderni chiamiamo “piacere estetico”, né, ancora, il precario equilibrio tra utilità e bellezza, ma la nascita di ciò che abbiamo chiamato “coscienza”…». È uno dei passaggi fondamentali del volume, in cui non solo si tira felicemente in ballo il pensiero avanzatissimo di Carlo Ragghianti, ma si pongono questioni metodologiche decisive, che richiederebbero ben altri approfondimenti.
Ecco dunque che ci avviciniamo al senso ultimo del titolo assegnato al capitolo: l’arte della preistoria ci riguarda, e dobbiamo farne esperienza e studiarla a fondo – ricorrendo agli strumenti concettuali che ci mettono a disposizione la cultura visuale e le neuroscienze cognitive – perché esiste un nesso di continuità tra i nostri comportamenti al cospetto delle immagini e i comportamenti dei nostri antenati, e perché questi comportamenti sono la prima testimonianza della nascita della coscienza. Perdere questa capacità, rimuoverla dal nostro orizzonte, come sembra prospettare il graffito di Bansky posto in esergo al capitolo, che raffigura un addetto alle pulizie nell’atto di cancellare da un muro delle incisioni rupestri (Cave Painting Removal, 2008), significherebbe cancellare la traccia più antica e profonda dell’umanità.
Il libro, organizzato in ulteriori quattro capitoli, affronta in modo diretto e puntuale altrettanti problemi della cultura visuale del paleolitico, a cominciare dall’esperienza del fare-immagine (cap. 2), analizzata attraverso la triplice prospettiva della produzione di immagini, dello sguardo dello spettatore che osserva quelle immagini e dei loro supporti mediali. È opportuno sottolineare il ruolo decisivo assegnato al concetto di «nicchia ecomediale», sviluppato dall’autore nel suo La svolta ecomediale (Meltemi, 2023), chiamato in causa per sostenere la tesi che il fare-immagine paleolitico sia «un tentativo di trasformare l’ambiente e renderlo abitabile» (p. 115), andando ad agire sulla nicchia ecologica di Homo sapiens.
I capitoli seguenti sono dedicati a tre dispositivi paleolitici funzionali alla trasformazione della nicchia ecomediale. Si tratta di dispositivi ancora in uso oggi: le superfici, cioè i supporti mediali di cui si serve il nostro fare-immagine («dalle pareti rupestri ai moderni touch screen, le superfici sono gli oggetti che permettono alla mente umana di “proiettare” l’interno sull’esterno, di “visualizzare” le immagini mentali al di fuori della “caverna” della mente umana…», p. 118); le miniature, ovvero le figurine ridotte in scala che accompagnano tutta la storia evolutiva; gli ibridi, ovverosia le «creature composite» che fondono stati dell’essere diversi, l’animale e l’umano, «una caratteristica fondamentale e sostanzialmente unica dell’Homo sapiens» (ibidem).
È in questi capitoli, da leggere tenendo sul tavolo da lavoro altri due fondamentali libri di Cometa, con cui sono profondamente intrecciati – Perché le storie ci aiutano a vivere (Raffaello Cortina, 2017) e Cultura visuale (Raffaello Cortina, 2020) –, che possiamo trovare infiniti spunti di riflessione e indicazioni di metodo decisivi per il futuro degli studi sul fare artistico e sull’estetica, e a mio avviso davvero generativi per chi si occupa di arte, di letteratura, della loro fruizione e interpretazione.
In questa sede, mi preme solo accennare alla necessità e all’urgenza di approfondire i possibili impatti di questo lavoro – come, in generale, della svolta bioculturale – sulla didattica della letteratura e, in generale, sui processi di insegnamento e di apprendimento mediati dall’arte e dall’esperienza estetica. Non è questione di poco conto, e lo stesso Cometa ha già avanzato qualche ipotesi in chiusura di Biopoetica, un suo saggio su Siri Hustvedt (in La letteratura e il bios, Mimesis, 2020), e in Letteratura e darwinismo (Carocci, 2019).
Il fatto è che questo Paleostetica non è solo un bel libro utile a testimoniare la vitalità degli studi umanistici e le potenzialità di una ricerca capace di travalicare i confini disciplinari. Quel che dobbiamo fare, di fronte a questo libro e a tutta la costellazione di scritti a cui Cometa ha lavorato negli ultimi dieci-dodici anni – che a loro volta hanno evocato, riattivato e rimesso in circolazione centinaia e centinaia di studi afferenti a una decina di diversi campi di ricerca – è decidere se finalmente, nell’ambito dell’insegnamento, vogliamo prendere sul serio il significato e il valore dell’arte (e quindi anche della letteratura in quanto arte, o “artificazione”, del linguaggio) nella vita, o se continuare a fare finta di niente.