Qualche volta – nella convinzione che la formazione permanente e l’aggiornamento della propria valigia degli attrezzi, come docente, siano indispensabili per svolgere al meglio il proprio lavoro – capita di avere sorprese che offrono nutrimento al proprio ruolo professionale, ma prima di tutto alla propria condizione di essere umano.
Questo mi è capitato incontrando il teatro, in particolare quello della consapevolezza e dell’attenzione, di Gabriele Vacis, fondatore del laboratorio teatro Settimo, principalmente regista e drammaturgo, che si ispira alle teorie di Grotowski, riassumibili, semplificando molto, con il concetto di regia come forma di pedagogia.
Cosa c’entra il teatro con la consapevolezza e l’attenzione? Perché in un percorso di formazione per educatori, insegnanti e psicologi è presente un laboratorio con attori e attrici appena usciti dalla scuola del Teatro Stabile di Torino – diretta, appunto, da Vacis? Con questi interrogativi, ma anche con molta curiosità, nell’ottobre del 2022 mi accingevo, per la prima volta, a partecipare ad una attività proposta dai PoEM.
PoEM sta per Potenziali evocati multimediali ma riprende anche il verbo greco poein. Uno di quei verbi che si imparano subito al liceo perché si trova continuamente nelle versioni e perché è di quelli chiari e solidi che non lascia dubbi sul suo significato concreto: vuol dire “fare”.
Guidati e protetti (è proprio il caso di dirlo) anche dopo i loro studi da Gabriele Vacis e da Roberto Tarasco, scenofonico, i ragazzi e le ragazze dei PoEM hanno intrapreso una strada difficile e coraggiosa, di questi tempi. Hanno creato una loro impresa, una compagnia teatrale che miracolosamente resiste, nel quadro desolante, avaro di mezzi e prospettive, che il panorama culturale italiano spesso offre, specialmente ai e alle giovani.
Attori e attrici, nella formazione citata sopra, senza introduzioni o preamboli, hanno invitato i/le partecipanti all’incontro a unirsi a loro nella palestra che ci ospitava. Qualcuno/a già da qualche minuto camminava in una fila orizzontale che avrei scoperto dopo si chiama “schiera”, con un sottofondo musicale. In poco tempo camminavamo tutti/e, insieme, allineati/e, senza aver ricevuto un invito a parole, ma tramite l’avvicinamento fisico del gruppo già in movimento e sguardi diretti, inequivocabili.
Il lavoro è continuato con ripetute camminate da una parte all’altra della palestra, con la schiera che cambiava ritmo, nel movimento, ma sempre doveva avere tutti e tutte con lo stesso passo. Alla schiera si sono quindi alternati “stormi”, movimenti simili a quelli degli uccelli in gruppo, improvvisati ma non casuali perché c’era sempre qualche attore o attrice a guidarli, o meglio ad attivarli e a tenere tutto insieme, ad accorgersi se tutti/e fossero lì presenti, in quel momento e in quel luogo, ma anche disposti/e ad accorgersi, a loro volta, degli altri e delle altre. A tratti si stava anche da soli o sole, ci si cercava, ci si sentiva, si prendeva consapevolezza di sé e del proprio corpo, della confidenza o meno col proprio corpo, con calma, aiutandosi col respiro.
Ecco: credo stia qui, soprattutto, il senso profondo del lavoro preziosissimo a cui i PoEM possono allenare chi insegna. Come si può, infatti, avere a che fare tutti i giorni con esseri umani, per lo più in formazione, in crescita, senza accorgersi di loro, cioè senza sentire gli stati d’animo, i timori, le gioie, le ansie, le paure e insicurezze con cui alunni e alunne entrano in classe, inevitabilmente? Come si può non prendersene cura? L’awareness dei PoEM è una pratica che prevede di accorgersi degli altri e delle altre che non si scinde dalla cura, ma non perché aspiri a sostituirsi al lavoro degli psicologi, bensì perché mira a coltivare un clima di benessere, di rispetto e attenzione in un gruppo di esseri umani, come può essere una classe.
Una delle basi della “schiera”, oltre al passo comune – che deve venire naturalmente, senza sforzi, senza timore di sbagliare, senza rigidità –, è lo “sguardo aperto”, cioè la capacità di muoversi nello spazio, di stare con altri/e, soprattutto fisicamente, allenando il “sentire” con tutti i sensi, il guardare, veramente, negli occhi. Quante volte gli/le insegnanti entrano in classe preoccupati/e soprattutto della lezione, concentrati/e su di sé, sulle proprie aspettative di quel giorno, con quella classe e dedicano uno sguardo vero, di osservazione, se va bene, su ogni alunno/a solo brevemente, di sfuggita?
Il teatro, come la scuola, vive di persone, di corpi. Durante la pandemia da Covid-19 si è data molta rilevanza all’immobilismo dei corpi dei giovani e delle giovani, chiusi/e nelle case, inchiodati/e a ore e ore di lezioni online, ma poi, tornati/e in presenza, cosa è cambiato? Condividere di nuovo uno spazio fisico e non virtuale, un’aria comune, potersi guardare, essere “di persona”, hanno stimolato una osservazione sul rientro alla normalità in classe, una riflessione che portasse a migliorare il clima generale rispetto a quello che si era lasciato? Perché un buon clima di classe rende tutto più facile, e agevola sia l’apprendimento sia l’insegnamento, questo è indubbio.
Come si legge in un post di Instagram dei PoEM, che cita Vacis: «Il teatro e la scuola si assomigliano perché sono gli unici posti rimasti in cui chi parla può ascoltare chi ascolta».
Così si spiega come si legano teatro-scuola-awareness, nell’interpretazione dei PoEM, così si intende, per chi vuole intendere, come la loro idea di comunità coincida con l’idea più ambiziosa e alta di scuola che si possa immaginare. Il loro lavoro di attori e attrici, ma anche di autori e autrici (perché scrivono, loro stessi/e, almeno in parte, i loro spettacoli), si basa proprio su questo, sulle caratteristiche e i bisogni della comunità, della loro comunità in quel momento e delle relazioni che vi sono all’interno, basate sull’ascolto reciproco. Una comunità che non è isolata, fuori dal mondo, bensì al contrario, dentro, insieme al pubblico con cui la compagnia interagisce alla pari, dialoga e in cui si specchia, a cominciare dalle prove aperte.
«Sguardi aperti» è il nome dei laboratori che i PoEM offrono a Torino, gratuitamente, a tutti e tutte, a chi abbia voglia di mettersi in gioco, ma sono presenti anche nelle scuole, soprattutto superiori, e sono esempio notevole per giovani in cerca di sé stessi e/o di una loro strada. Il loro Risveglio di primavera, una sorta di teen drama dell’800, è una denuncia feroce sull’adolescenza, le responsabilità della scuola e degli adulti.
I campus di alcuni giorni, che tengono in vari luoghi d’Italia, sono occasioni significative per vivere un’intensa esperienza collettiva e umana in cui si mescolano età, livelli culturali, vissuti, interessi: in essi può capitare, tra le varie proposte, di ragionare sull’attualità, perché i PoEM sono esigenti e scomodi per le generazioni di adulti, possono infatti porre domande che a loro sono sorte lavorando alle tragedie greche che hanno portato in scena: per cosa vale la pena vivere, per cosa vale la pena morire, per esempio.
Le riflessioni su personaggi come Antigone o Eteocle o Polinice, su cui i PoEM hanno lavorato, offrono spunti su come dare senso ai testi classici, oggi, a scuola, su come leggendoli e studiandone le tematiche, si possano trovare spunti per capire il mondo di oggi, in cui ancora, per esempio, l’uomo non si è liberato dell’amore per la guerra e le armi, lo stesso dei tempi degli antichi greci. «Ritornare a usare il corpo, e farlo insieme agli altri, senza giudizio è il primo passo per smettere di desiderare la guerra»: così scrive Erica Nava, presidente dei PoEM, per parlare di Sette a Tebe.
L’acqua si impara dalla sete
La terra, dagli oceani attraversati
La gioia, dal dolore
La pace, dai racconti di battaglia
Sette a Tebe