Parlando con Elena Rausa delle sue “Invisibili”

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Il nostro Mauro Reali dialoga con Elena Rausa sull’ultimo romanzo che questa autrice – nonché collaboratrice de La ricerca – ha da poco pubblicato. In esso, come al solito, passato e presente dialogano e talora si confondono, muovendo dagli infausti eventi dell’occupazione coloniale italiana dell’Etiopia.

Ho avuto il piacere, in passato, di presentare e recensire su queste stesse colonne i due precedenti romanzi di Elena Rausa, entrambi editi da Neri Pozza, Milano.

Il primo, del 2014, si intitola Marta nella corrente, e – ambientato nella Milano degli anni Ottanta – racconta di una duplice, faticosa, ricerca di superamento di traumi: quello della piccola Marta, che ha perso improvvisamente la madre, e quello della sua psicologa Emma Donati, che ha fatto esperienza diretta dei lager nazisti.

Anche le vicende del secondo, del 2018, intitolato Ognuno riconosce i suoi, si svolgono a Milano, però qualche anno più tardi. Qui Caterina, giovane donna in attesa di un bambino, vuole saperne di più sulle sue origini, vuole «riconoscere i suoi», come Eugenio Montale scriveva in Piccolo testamento. Scavando, trova storie personali che molto hanno a che fare con quegli «anni di piombo» che hanno funestato l’Italia dagli anni Settanta a seguire.

L’ultima fatica, uscita nel 2024

Pure il fresco di stampa Le invisibili, del 2024, è come i precedenti ambientato nella capitale lombarda – siamo però già nel nuovo millennio – e mostra anch’esso una duplicità (ma forse sbaglio per difetto) di piani narrativi. La contemporaneità, infatti, dialoga (talora litiga…) con un passato cronologicamente più lontano e geograficamente più esotico: l’epoca dell’occupazione coloniale italiana dell’Etiopia (1935-1941).

Il nuovo romanzo, uscito nel febbraio 2024.

Così, l’anziano vedovo Arturo Gargano, nella sua periferica villetta con giardino, convive con visioni e ricordi che non capiamo bene se siano causati da una patologia oculistica (egli crede di vedere le cose in modi e forme diverse dagli altri), da una qualche larvata forma di demenza senile, oppure da quella generica incapacità che hanno i «vecchi» – cantava Francesco Guccini – di «distinguere il vero dai sogni» (Il vecchio e il bambino, 1972).

Li condivide con Fatima, una generosa signora di origini eritree che ogni tanto gli porta la spesa e gli cucina qualcosa, e soprattutto con Tobia, un giovane liceale che – per ragioni che non anticipo – frequenta la sua casa: la memoria dell’anziano e la formazione del ragazzo diventano dunque i due nuclei fondamentali del romanzo.

Conosciamo allora le storie dei genitori di Arturo, cioè Vittorio e Nicoletta, trasferitisi dalla Puglia in Etiopia, dove lo stesso Arturo è nato; di Ekelè e del figlio Dawit, amico di gioventù di Arturo; ma anche di Lilit, la donna che il nostro crede di vedere e con la quale dialoga di un passato che – in questo caso – assume però sembianze illusorie. Ben poco illusorie, invece, le vicende etiopi della famiglia Gargano, non estranei (volenti o nolenti) a quella politica violenta e repressiva che ha caratterizzato il colonialismo italiano. Ciò in barba a quel mito degli «Italiani brava gente» propagandato dal Fascismo in opposizione alla crudeltà delle altre potenze coloniali e invece ormai smentito dagli storici (ricordo solo: A. Del Boca, Italiani, brava gente, Neri Pozza, Milano 2005).

Ma c’è dell’altro. Infatti, in un’incredibile concatenazione di circostanze, anche la madre di Tobia, Agata Penna, scopre che la sua famiglia ha avuto a che fare con quei tragici eventi…

Una (non troppo) breve intervista

Qui, però, mi fermo, perché l’amicizia che da anni mi lega all’autrice mi consente di chiedere a lei qualcosa per andare più a fondo nell’indagine su questo romanzo. Romanzo che è opera dalla lettura impegnativa (si chiede al lettore di tenere le fila delle vicende che si intrecciano), ma parimenti coinvolgente e da chi scrive vivamente consigliata; opera che non delude chi da un libro si aspetta qualcosa di simile a quello che Umberto Saba richiedeva ai poeti, cioè l’«onestà», il non aver paura di arrivare senza artifici al «nocciolo» delle cose e dei sentimenti: ed è cosa che già ho scritto per i suoi precedenti libri. Perché Elena affronta con coraggio temi senza tempo, come i rapporti familiari, l’amore, l’amicizia, la discriminazione femminile e perfino il destino; ma ha anche la capacità – laddove li vuole storicizzare – di farlo con meticolosa precisione.
Ma veniamo davvero alle domande.

Mauro Reali: Ci dici qualcosa sulla scelta del titolo?

Elena Rausa: Il titolo in genere arriva ultimo, e permette – a chi, come me, si trova di fronte al prodotto di una scrittura lungamente stratificata – di riconoscere la figura che ne è scaturita. Qui, titolo e copertina (immagine dell’artista etiope Girma Berta, dall’eloquente titolo, Moving Shadows I + II) propongono a chi legge due possibili chiavi interpretative: l’invito a prestare attenzione alle donne, lungo una trama prioritariamente affidata a personaggi maschili, e la centralità del tema del vedere e non vedere. Si allude a una chiarezza di visione che spesso non coincide con ciò che è al centro della scena, in piena luce, né con ciò che gli occhi selezionano, in virtù di un’attitudine culturalmente condizionata: si pensi alla natura appunto culturale della nostra ridotta percezione del mondo vegetale, quella che in inglese si definisce Plant Blindness. Uno dei personaggi, Vittorio, non vede una parte di realtà, non riesce più a leggere, ma vede e sente ciò che tutti gli altri non vedono; la cecità torna in almeno altri due personaggi minori – quasi comparse, ma uno decisamente sciamanico.
A questo si aggiunge l’idea che invisibile è chi che esiste fuori dal nostro angolo di visuale, ma anche chi è imprigionato/a da uno sguardo categorizzante, che, come lo sguardo di Medusa, pietrifica l’altro/a. L’apice di questa concezione dello sguardo si trova nel riferimento alle cartoline coloniali: sia quelle che hanno veicolato un’immagine della popolazione abissina utile a giustificare l’azione bellica; sia quelle in cui si perpetuava l’abuso del corpo delle donne e delle bambine colonizzate.
Ho assegnato un valore polisemico al tema del vedere e lo affido volentieri alla sensibilità di chi leggerà. Mi pare che la riflessione sia particolarmente utile oggi, in un’epoca in cui tendiamo costruire attorno a questa facoltà sensoriale la relazione con noi stessi, con gli altri e con il mondo, tanto che c’è chi ha coniato la definizione di homo spectans, come evoluzione della specie sapiens.

 

Una cartolina del periodo coloniale.

Mauro Reali: Da dove è scaturita questa volontà di indagare, da storica e da scrittrice, su un periodo così oscuro e poco glorioso della nostra vita nazionale?

Elena Rausa: Non sono una storica e non ho lavorato su fonti dirette, ma ho molto letto e consultato alcuni storici che si occupano del periodo di cui parlo, e riportato in una nota bibliografica i lavori secondo me imprescindibili per chi voglia approfondire la storia del Colonialismo italiano.
Questo romanzo parte comunque da una curiosità autobiografica: il mio bisnonno migrò in Eritrea negli anni Trenta, come lavoratore, insieme al figlio maggiore, che in Etiopia si sposò e costruì una storia familiare che sento anche mia. Volevo conoscere ciò di cui i miei antenati potrebbero essere stati testimoni, e ho dovuto molto studiare, perché si tratta di vicende drammatiche che hanno avuto poco spazio nella costruzione della nostra identità nazionale. Ci pensiamo più spesso eredi di eroici partigiani, oppure uomini e donne altruisticamente pronti al rischio o al sacrificio personale, come Giorgio Perlasca; se riconosciamo d’essere stati invasori, amiamo l’immagine dei vincitori tristi, bonari e pietosi, in ogni caso clementi. Siamo insomma quelli che risolvono il conflitto con una partita di calcio sulla polverosa isola del Dodecaneso e, in Africa, i grandi costruttori di strade, ospedali, scuole. Quelli che hanno eliminato la schiavitù, ho sentito dire di recente. Non sarà difficile riconoscere che il ritratto del “bravo italiano” non ha permesso la rielaborazione che è stata di altre nazioni. Conoscere il passato nella sua interezza è però necessario: non solo serve ad assumersi la responsabilità di ciò che è stato (e che toglie il sonno, se lo si studia un po’), ma permette di guadagnare consapevolezza su una possibilità sempre attuale.
Mi interessa molto il rapporto tra passato e presente, la definizione stessa di passato e di presente, e il modo in cui la grande Storia si inscrive nelle piccole storie di ciascuno: è in fondo il tema di tutti e tre i romanzi. Sentiamo che nelle nostre vite ci sono impronte di esperienze che ci hanno preceduto, ma per lo più ignoriamo il fiume carsico dei traumi familiari e collettivi taciuti o rimossi, come appunto i crimini coloniali. Ho l’impressione che, nell’inconsapevolezza, il rimosso tenda a riaffiorare capricciosamente e scompostamente, per la naturale spinta ad emergere di tutto ciò che è stato e che, inascoltato, continua a essere.
Il continente africano mi pare emblematico di questa relazione semplificante e indebitamente pacificante con il nostro passato: per cominciare, siamo ottusamente propensi a considerare l’Africa un unicum, mentre è una costellazione di identità diversissime, che si sono costruite anche nel confronto con le potenze coloniali di ieri e quelle economiche di oggi. L’Italia arriva un po’ in coda al tavolo di spartizione dell’Africa e non ha mai dovuto confrontarsi con le guerre d’indipendenza, perciò, forse, fatica a cogliere una relazione tra la direttrice dei flussi migratori da sud a nord e quella da nord a sud, delle invasioni tardo ottocentesche e novecentesche, non solo fasciste – una direttrice forse mai del tutto estinta, in virtù di investimenti che proseguono anche oggi. Ai flussi migratori provenienti dall’Africa, oggi si prova a opporre un’esternalizzazione dei confini europei che ci riporta di nuovo sull’altra sponda del Mediterraneo, quando affidiamo il controllo del limes ai paesi nordafricani: a me pare che la prima cecità collettiva sia quella che nega una forma di compromissione italiana, europea, occidentale con tutto ciò che accade nel continente africano.

Mauro Reali: Senza “spoilerare” nulla, a me pare che l’amicizia – e la sua difficoltà (impossibilità?) a mantenersi – sia uno dei fili conduttori del romanzo. Me lo confermi?

Elena Rausa: L’amicizia ha preso nel romanzo la forma di una familiarità tra diversi, è il doppio in cui si misura sempre una sorta di rispecchiamento: l’altra o l’altro sono la via attraverso cui conosciamo noi stessi nella nostra struttura composita di luce e di ombra. La fotografia, metafora molto presente nel romanzo, rimanda proprio a questo nell’idea del “negativo”, per cui l’amico/a è anzitutto alter ego.
Ho l’impressione che le storie di amicizia che ho immaginato raccontino lo “spaesamento” che nasce dall’incontro con l’altro da sé. Non sono storie semplici e possono apparire relazioni faticose, perché comportano fratture e separazioni; ma mi pare che siano anche attraversate da una disposizione amorevole a tenere insieme i pezzi con la forza della tenerezza e della compassione. Mi auguro che arrivi a chi legge questa grande fede nelle relazioni d’amicizia e d’amore, per quanto imperfette: anzi proprio in virtù dell’imperfezione, perché la perfezione è compiuta in sé e non si apre al dinamismo della vita.

Mauro Reali: Cosa diciamo del giorno 3 ottobre?

Elena Rausa: Mentre studiavo e scrivevo, mi tornava alla mente La frontiera di Alessandro Leogrande (Feltrinelli, Milano 2015), libro che ho molto caro e che suggerisce l’ipotesi di un legame tra le responsabilità coloniali italiane e la strage di migranti che il 3 ottobre 2013, a Lampedusa, portò alla morte 368 (o 366, le fonti oscillano) persone in gran parte provenienti dall’Eritrea e dall’Etiopia. Non penso ovviamente a un rapporto di causa ed effetto, ma a una relazione spirituale che in qualche modo interroga chi la prende in considerazione. Il dato curioso è che proprio in un altro 3 ottobre, nel 1935, le truppe del generale Emilio De Bono varcarono in armi il fiume Mareb, che all’epoca era il confine naturale tra l’Eritrea italiana e la nuova, vagheggiata, colonia etiope. Le battaglie, l’impiego dei gas, le rappresaglie e i massacri hanno nel 3 ottobre una data di inizio.
Ho voluto indagare meglio la relazione tra i due eventi. La storia che racconto è, in effetti, un’inchiesta sulle eredità epigenetiche transgenerazionali, che sono già acquisizione scientifica in campo biologico e ipotesi empiricamente indagate (con riscontri sorprendenti) in ambito psicoanalitico: penso ad alcuni studi sulla memoria olfattiva del trauma di Brian G. Dias e Kerry J. Ressler, Parental olfactory experience influences behavior and neural structure in subsequent generations, «Nature Neuroscience», 17(1), 89-96 (2013), e al lavoro di Anne Ancelin Schützenberger, La sindrome degli antenati. Psicoterapia transgenerazionale e legami nascosti nell’albero genealogico, Di Renzo Editore, Roma 2004. Portare il 3 ottobre nella vita di alcuni personaggi del romanzo è servito a ragionare appunto su quella che Schützenberger chiama «sindrome degli antenati». Se qualcosa di epico resta oggi nelle possibilità della scrittura e del romanzo è la possibilità che la narrazione continui a offrirsi come una via poetica di dialogo con chi ci ha preceduto e di ricomposizione poetica delle macerie della Storia.

Mauro Reali: Ultima cosa. Ho l’impressione che tu, pur se lontana dal modello manzoniano del narratore omnisciente, abbia scelto Fatima come interprete del tuo punto di vista e garante della possibilità di dare una lettura di insieme alla vicenda. Che ci dici in merito?

Elena Rausa: Fatima è una figura a cui sono molto affezionata, sia perché ho bene presente la donna, anzi le donne che l’hanno ispirata, sia perché a lei ho affidato un punto di vista particolare, che forse oggi, come dici, mi appartiene, ma che ho dovuto cercare nei libri e recuperare grazie ad alcune tradizioni familiari.
In Fatima c’è la semplicità e la pragmaticità di quanti per prima cosa offrono aiuto e poi, eventualmente, fanno domande. Dice di sé stessa d’essere colei che offre una coperta calda o prepara da mangiare, gesti di ospitalità e di cura che però sono offerti da una donna che ha vissuto e vive ai margini, perché viene da lontano e vive in una periferia sempre più colorata e plurilingue. Nel personaggio ho incarnato l’idea che spesso la cura e la sensibilità nascano dall’essere stati feriti o dal riconoscersi feriti (condizioni non sempre equivalenti). Ho scoperto in lei una forza che nasce dall’indisponibilità a farsi ritrarre come vittima.
Su un altro piano, Fatima è testimone di un senso del sacro e del tragico che abbiamo in gran parte perso, ma che ho ritrovato negli scrittori e nelle scrittrici con cui sento maggiore affinità (l’ultimo Leopardi, Primo Levi e Camus, ma, con più sorpresa e incanto, Anna Maria Ortese de Le piccole persone, Elsa Morante de La storia, Simone Weil lettrice dell’Iliade, di recente Maaza Mengiste, autrice de Il re ombra).
Chi ha avuto la pazienza di leggere i miei contributi su La ricerca può forse riconoscere una trama che si articola secondo due filoni: il senso e l’utilità della letteratura per la vita e gli “sconfinamenti”, intesi come luoghi, a volte anche drammatici, in cui in cui è possibile mettere in discussione (perdere e ridefinire) la mappa del mondo che abbiamo ereditato e che siamo continuamente chiamati a ridisegnare e reinterpretare. Credo di aver fatto un uso “privatistico” dello spazio che di tanto in tanto mi ospita, perché questi due filoni sono stati utili a tenere insieme la mappa teorica della mia ultima narrazione, e forse anche delle precedenti.

Mauro Reali: Grazie, Elena, per questa nostra chiacchierata, che – sono sicuro – sarà un’utile guida per chi vorrà leggere il tuo romanzo, e ed è comunque una testimonianza concreta della passione con la quale è stato scritto. E grazie anche ai nostri lettori, ai quali chiediamo scusa per non avere tenuto fede a un’originaria (anche se non esplicitata) promessa di brevità: ma non è facile davvero togliere la parola dalla bocca (o dalla penna, anzi dalla tastiera…) a due docenti di Lettere!

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Mauro Reali

Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e Direttore responsabile de «La ricerca».

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