L’8 settembre che piace al neofascismo italiano

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In questi giorni si è molto discusso a proposito del calendario realizzato dall’esercito italiano, che porta in copertina la scritta «Per l’Italia sempre… prima e dopo l’8 settembre 1943». Qualche riflessione.
La prima pagina del «Corriere della Sera» dell’8 settembre del 1943.

C’è chi ha commentato che il calendario intende riabilitare i ragazzi di Salò dimenticando «le responsabilità italianissime del fascismo» (Marco Grimaldi), e chi, come il ministro Crosetto, sostiene che «non intende affatto riabilitare il fascismo» ma che semmai «si inquadra in una trilogia storica che vuole evidenziare l’impegno e il valore degli italiani e dei nostri militari nella Guerra di Liberazione».

Ciò che salta agli occhi, in ogni caso, è la scelta di riorganizzare la memoria storica dell’Esercito italiano intorno alla data dell’armistizio firmato da Badoglio, una cesura già celebrata dal fondamentale “calendario civile” allestito da Alessandro Portelli, che, contrapponendosi alla vulgata neofascista e neocon dell’armistizio come morte della patria, individuava nell’8 settembre il momento di rottura con il fascismo e della nascita di una patria alternativa, scelta consapevolmente e non imposta, alla cui edificazione partecipano consensualmente civili e militari.

Viene il dubbio, quindi, che questo nuovo calendario voglia semplicemente riappropriarsi di ciò che fu esclusivamente dei militari, restituendo loro almeno una parte della dignità perduta con la fuga da Roma del Re e dei vertici dell’esercito. Se i civili hanno fatto la loro parte riunendosi spontaneamente a Porta San Paolo per difendere Roma dall’esercito tedesco, che sia venuto il momento di concedere un po’ di onore anche a chi combatté continuando a indossare la divisa? Forse per la destra italiana, che dalla Federazione Nazionale Combattenti della Repubblica Sociale Italiana fino a Ernesto Galli della Loggia ha assegnato un assoluto valore negativo a quel momento storico, è venuto il momento di inventarsi una nuova memoria, andando a mettere le mani su un patrimonio ideale che fino a oggi è stato rivendicato e alimentato da chi ha combattuto la guerra partigiana e da quanti si sono sempre legittimamente riconosciuti nello Stato repubblicano nato dopo il 25 aprile del 1945.

Non ho le competenze per spingermi oltre nell’indagine, ma non posso non avanzare un ulteriore dubbio. Prima di archiviare l’episodio, infatti, credo che valga la pena prendere in considerazione almeno un’altra interpretazione, di matrice più schiettamente neofascista e revisionista, che vede nell’8 settembre l’inizio del percorso che ha portato alla nascita della Repubblica di Salò, un’entità statuale che in alcuni ambienti viene considerata ancora oggi la legittima erede del Regno d’Italia che proprio con l’armistizio di Cassibile avrebbe cessato di esistere.

La tesi, sostenuta in anni recenti da Daniele Trabucco (fondatore dell’associazione Vicit Leo) e Michelangelo De Donà in un articolo intitolato Brevi considerazioni sulla natura giuridica della Repubblica Sociale Italiana, ma già presente in studi e saggi che trovano un qualche consenso proprio nell’area degli studi giuridici, sposta l’attenzione dalla dimensione politica e storica a quella del diritto costituzionale, secondo una strategia già perseguita per esempio dalla rivista «Storia Verità», fondata nel 1991 a Grosseto da Dante Ciabatti – uno dei personaggi del romanzo La più amata di Teresa Ciabatti –, il quale sostiene che «Lo Stato italiano non scompare con l’8 settembre 1943, ma continua con la presenza di un governo italiano sovrano, quello della R.S.I., sulla maggior parte del territorio nazionale, mentre il resto, occupato dall’invasore, non ha un governo sovrano» (Della «guerra civile» in Italia dal 1943 in avanti, in «Storia Verità», n. 16, luglio-agosto 1994, pp. 25-29). La «continuità giurisdizionale in Italia», continua l’autore-editore, è dunque assicurata dalla Repubblica Sociale Italiana, e la negazione di questo dato di fatto – questa è ancora la tesi di Ciabatti – sarebbe funzionale a giustificare e legittimare la guerra di liberazione condotta dai partigiani (definita qui «ribellismo armato») e poi, dopo la guerra, a dividere l’Italia in due fazioni tra loro contrapposte. La stessa rivista aveva promosso l’anno precedente un convegno romano dal titolo Esame storico giuridico degli avvenimenti in Italia tra il 1943 e il 1945 (26 gennaio 1993), il cui scopo dichiarato era dimostrare «la validità della R.S.I unica entità statuale sovrana in quel periodo e il diritto a cancellare le leggi eccezionali tuttora in essere, ristabilendo la verità e la giustizia» (quarta di copertina del n. 9, dicembre 1992-gennaio 1993). Forti di questa convinzione e intenzionati a ristabilire la verità, l’editore e gli autori della rivista possono quindi procedere serenamente con la celebrazione di episodi di guerra e con la commemorazione appassionata del maresciallo Kesserling, capo delle forze tedesche in Italia dopo l’armistizio, definito da Ciabatti «un grande soldato e sicuramente uno dei migliori generali delle forze armate tedesche», la cui «eccezionale capacità operativa fu esaltata nella campagna d’Italia, dopo la resa degli Alleati del settembre 1943» («Storia Verità», n. 20, marzo-aprile 1995, p. 24).

È da questa peculiare prospettiva, dunque, che anche le stragi nazifasciste di cui Kesserling si è reso direttamente e indirettamente responsabile possono passare in secondo piano rispetto alla storia giuridica delle istituzioni – e quindi dello stesso esercito –, e addirittura rimosse o, peggio ancora, giustificate e legittimate.

In conclusione, non è chiara l’intenzione di chi ha scelto quel titolo per il calendario dell’esercito, che d’altronde ha fatto ricorso a uno stile allusivo e ammiccante – i tre puntini di sospensione stanno lì a dimostrarlo – lasciando al pubblico il compito di assegnare un significato più o meno inquietante, più o meno tranquillizzante, all’operazione. Sarebbe interessante e utile capire le eventuali continuità e contiguità tra chi sosteneva certe tesi e gli attuali decisori, per capire se ci sia o meno un’intenzione revisionista. Nel frattempo, vale la pena prendere sul serio le minacce alla democrazia e alla sua storia, che continuano a venire da più parti.

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Simone Giusti

ricercatore, insegna didattica della letteratura italiana all’Università di Siena, è autore di ricerche, studi e saggi sulla letteratura italiana, sulla traduzione, sulla lettura e sulla didattica della letteratura, tra cui Insegnare con la letteratura (Zanichelli, 2011), Per una didattica della letteratura (Pensa, 2014), Tradurre le opere, leggere le traduzioni (Loescher, 2018), Didattica della letteratura 2.0 (Carocci, 2015 e 2020), Didattica della letteratura italiana. La storia, la ricerca, le pratiche (Carocci, 2023). Ha fondato la rivista «Per leggere», semestrale di commenti, letture, edizioni e traduzioni. Con Federico Batini organizza il convegno biennale “Le storie siamo noi”, la prima iniziativa italiana dedicata all’orientamento narrativo. Insieme a Natascia Tonelli condirige la collana scientifica QdR / Didattica e letteratura e ha scritto Comunità di pratiche letterarie. Il valore d’uso della letteratura e il suo insegnamento (Loescher, 2021) e il manuale L’onesta brigata. Per una letteratura delle competenze, per il triennio delle secondarie di secondo grado.

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