«Noi siamo passanti, non studenti»

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Naufragi annunciati nel post pandemia 
di un istituto professionale. Da La ricerca 23, “Mal di scuola”.

 

 

 

La scuola vive di persone. Le persone costruiscono comunità, quindi la scuola è prima di tutto una comunità. Una comunità si basa sulle relazioni e anche sulle regole che le governano, e che possono essere più labili o più stringenti, ma restano sempre regole.

Durante il lockdown del 2020, e poi, tranne qualche settimana iniziale, nella scuola sempre in DAD del 2020/ 2021, ai ragazzi sono state sottratte molte di queste cose: le relazioni, soprattutto, ma anche le regole. Certo c’erano, a seconda dei casi, regole o regolamenti (alcuni assurdi) anche durante la DAD, ma da lontano – da remoto, appunto – tutto ha un peso e una valenza diversi.

Tornati fra i banchi, nell’autunno 2021, molti studenti e molte studentesse (i superstiti, alcuni nel frattempo sono spariti) hanno dovuto ricominciare a costruire, accettare, regolarsi, ritrovarsi. Non è stato affatto semplice, e l’esperienza nel mio istituto professionale, uguale a quella di altri istituti, credo lo abbia dimostrato.

Mettiamoci per un momento nei panni di X, studente di prima manutentori nell’anno scolastico 2019/2020.

X ha visto i suoi nuovi compagni e i suoi prof bene o male per quattro mesi. Alcuni per molto meno, dato che l’organico di un professionale a volte a dicembre è ancora incompleto. Dopodiché più nulla. X aveva appena iniziato a capire che razza di posto fosse quella scuola, spesso scelta come ripiego e seconda opzione, e ad avere relazioni più o meno stabili con i compagni e con i docenti, quando, per così dire, si è spenta la luce. Buio completo, per alcune settimane. La scuola e tutto quello che era routine scolastica sparite, da un giorno all’altro. Nemmeno il tempo di dirselo, perché è andata proprio così.

Alcuni docenti hanno iniziato a inviare compiti sul registro on line. Cominciava quindi a prendere corpo l’idea che, in fondo, la scuola fosse quello: “fare compiti”. Facile, in fondo. Oppure molto noioso e stancante.

Altri volenterosi organizzavano lezioni su Skype. Tutto è saltato, nel giro di qualche giorno; le comunicazioni avvenivano solo tramite il gruppo WhatsApp di classe, e solo con i docenti che ne facevano parte.

X non sa che fare. Si tiene in contatto con qualche messaggio su WA (meno male che esiste); non ha un pc in casa, per cui il cellulare che usa per qualsiasi forma di comunicazione online diventa anche e il suo solo strumento di lavoro, di scuola. Un piccolo schermo che sta in una mano, a scuola proibito di solito, diventa indispensabile, con le notifiche che appaiono sul display e con lo scroll obbligatorio, se va bene, ogni 5 minuti.

La scuola mette a disposizione una piattaforma, e X cerca di collegarsi o di seguire, quando può, e sempre dal telefono. Capire come accedere a tale piattaforma è spesso difficile. Spesso esaurisce i giga, il wi-fi non c’è in casa, spesso non si sveglia, spesso non capisce dove collegarsi e come. Non ha la password, la perde, la ritrova. Chiama i prof per farsi aiutare. Brancola un po’ nel buio. A volte, per non esaurire il credito, seleziona quali lezioni seguire sul cellulare e quali no.

Ci sono lezioni più pensate e organizzate. L’insegnante chiede di partecipare usando strategie digitali e didattiche che aiutino tutti a stare in quel nuovo mondo scolastico. Spesso invece l’idea di fondo è che tutto debba funzionare come in presenza, in modo assolutamente frontale, e basta. La fatica è enorme.

X si scoraggia, non ha voglia, non capisce. Prova, magari, ma poi si lascia trascinare dall’apatia generale. Che deve fare? Non lo sa. E anche molti adulti a casa e a scuola non lo sanno. Le prime ore non è quasi mai presente. Le altre si collega, ma in fondo non c’è: già la difficoltà a scuola in presenza era grande, figuriamoci da casa, sul letto, con le sigarette e il caffè sempre a portata di mano.

A giugno, intanto, tutti promossi. X ha fatto poco, quasi nulla, ma va in seconda.

Dopo qualche settimana di normalità, tutto da capo. Certo, con un po’ più di organizzazione, ma più o meno tutto procede nello stesso modo.

Che fa X? Che ancora non ha pc, non ha wi-fi in casa, ha una cameretta che divide con uno o due fratelli, spesso tutti a lezione contemporaneamente? X si barcamena. Accumula assenze su assenze. Perde quella poca motivazione che aveva. Si arrende. Non segue e non capisce perché dovrebbe farlo.

Arriva di nuovo giugno.

X come tanti altri passa in terza con poca preparazione, assenze numerosissime, e una rabbia che gli sale. La rabbia è tantissima: gli hanno tolto tanti mesi di adolescenza e non riesce a farsene una ragione. Anche gli adulti hanno subito un lockdown, ma certo con strumenti di elaborazione e di consapevolezza diversi.

È settembre 2021, e tutto ricomincia come se niente fosse. Si rientra fra i banchi e quasi nessun docente si prende del tempo. Tempo per capire, per chiacchierare, per ricostruire la relazione, data per scontata. Ma quella relazione non c’è più, o forse non c’era mai stata. E la scuola invece vuole correre avanti, vuole recuperare “programmi”, contenuti. Non è permesso rallentare, né fermarsi a riflettere su quanto successo.

X vorrebbe chiedere qualcosa: un perché, un quando o un come. Ha tanti dubbi, tante insicurezze. Ma non sa a chi, e allora piano piano si adegua, si lascia andare e semplicemente rinuncia. Il servizio di sportello psicologico ancora non c’è, e quindi nessuno lo ascolta.

«Mi dia pure due, non so niente». È la frase che sentivo ripetere più spesso in classe nell’anno scolastico 2021/22. A qualsiasi richiesta di lavoro o di impegno o di collaborazione le risposte erano «no», «non ne ho voglia» «ma perché lo devo fare?».

La scuola ridotta a prestazione/voto, e basta. Lo leggevo in modo lampante in quegli occhi che mi guardavano con sfida, dai loro banchi ritrovati. Il percorso o processo di apprendimento per quegli studenti non ha mai avuto alcun senso. Del resto, in DAD, quale processo c’era stato? Nessuno. Solo richieste e parole da uno schermo.

L’apatia generalizzata e dilagante è il fenomeno più evidente che si è visto a scuola. Così come l’insofferenza alle regole di convivenza. Non ho mai visto così tanti studenti nei corridoi durante tutta la mattinata. Uscivano dall’aula esasperati, sbattendo violentemente le porte: stare seduti per sei ore era diventato impossibile, una richiesta assurda, così come indossare ancora la mascherina. Una battaglia che ho presto rinunciato a combattere. A casa per un anno e mezzo tutte le regole erano saltate. Riabituarsi al dover fare è stato difficile. Non perché gli studenti del professionale siano quelli che tutti pensano (poco educati, incapaci, svogliati), ma perché se viene meno la motivazione che, bene o male, li aveva retti fino a prima della pandemia, le regole diventano insopportabili.

Non si riesce più ad accettare una scuola che non si capisce, a cui non si crede, che non cerca nemmeno una possibilità di mediazione educativa, ma vuole solo “insegnare” dall’alto e imporre regole. E queste regole sono saltate tutte. Stare in classe è stato dover affrontare ogni giorno una ri-motivazione continua, spesso senza riuscirci. La motivazione, è vero, forse non c’era sempre nemmeno prima, ma c’era uno spazio di lavoro condiviso, e dato per scontato. Un luogo fisico ma anche relazionale deputato all’apprendimento.

Nel settembre 2021, per uno studente che ha iniziato nel 2019 la prima professionale, questo spazio, completamente venuto meno, non è per nulla riacquisito, e però rimane vitale. Perché ci trova – o dovrebbe trovare – adulti affidabili, un luogo in cui essere preso sul serio, in cui interessi, qualità, difficoltà e passioni sono riconosciuti: un luogo fisico ma anche soprattutto metaforico di partecipazione e lavoro.

Studenti più schematici, inquadrati o strutturati probabilmente hanno saputo riprendere contatto con il luogo scuola senza fatica. Si sono “resettati” più in fretta. Nella classe di X non è stato così.

Abbiamo fatto tantissima fatica – io che li avevo appena conosciuti, e loro. Non abbiamo potuto portarli tutti all’esame di qualifica, e questo è stato uno dei fallimenti più grandi.

Quando ho provato a discutere in classe di cosa volesse dire essere “studenti”, della postura mentale che uno studente deve o dovrebbe avere, E. mi ha detto: «Ma quali studenti? Noi qui siamo passanti». Loro dunque si percepiscono così. Persone che passano, in un luogo, per caso, dovendo rimanere per un tot di tempo (troppo) a fare cose di cui a loro sfugge completamente l’importanza, e dunque su cui non vogliono investire nulla.

In sintesi, quindi: la rinuncia e la rabbia sono state le cifre del faticoso anno scolastico 2021/22. A molti forse non importa, ma invece dovrebbe: in questi due anni di pandemia abbiamo perso, come Paese, un’occasione importante per ripensare la scuola, e soprattutto abbiamo perso studenti.

C’è tutto un mondo di abitudini rassicuranti e di lavoro serio da ricostruire. Occorre mettersi in gioco come docenti per attivare un ambiente di apprendimento nuovo, che metta a frutto ciò che con la pandemia abbiamo imparato: non possiamo permetterci di perdere studenti se non vogliamo farli davvero diventare passanti, non solo all’interno della scuola ma delle loro stesse vite.

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Sabina Minuto

Insegna lettere nella scuola superiore di II grado, a Savona. Si occupa da anni di metodologie didattiche, in particolare dei laboratori di lettura e scrittura messi a punto dalla Columbia University (Writing and Reading Workshop) contribuendo a portarne in Italia il metodo.

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