«I bambini sono ancora in parte selvatici, non civilizzati, e ancora spinti a esplorare i margini più selvatici del mondo», scriveva David Almond nel suo discorso di accettazione del premio Andersen, prima di raccontare le sue scorribande infantili negli stagni, nei porcili, tra le alture, a correre, urlare, inscenare battaglie, e poi tornare a casa, al caldo, nel luogo sicuro e civilizzato dove lo attendevano cibo e riposo.
Trovo la riflessione di Almond citata nel libro di Giorgia Grilli intitolato Di cosa parlano i libri per bambini. La letteratura per l’infanzia come critica radicale (Donzelli, Roma 2021), volume molto importante nel quale, tra l’altro, si approfondisce il tema di un quasi insanabile contrasto tra il compito educativo così legato al controllo di cui l’adulto spesso si investe, e la letteratura, per sua natura sovversiva, connessa a ciò che non è noto e all’imprevisto.
La letteratura, se non presentata con esercizi didattici e senza scopi educativi, è entrata raramente nella scuola. Ne parla proprio Giorgia Grilli nel suo libro, a p. 116: «Non si porta solitamente il romanzo dentro alla scuola, e ci si accontenta dei brani antologizzati nei libri di lettura, per introdurre – assurdamente – i bambini alla letteratura (e insieme magari alla grammatica, all’analisi logica ecc.) perché, appunto, il romanzo, letto per il puro piacere che suscita quando è un bel romanzo, introduce sovversione e questo non può darsi, evidentemente, nelle stesse aule in cui si lavora per l’educazione».
Io credo esista, nelle famiglie, nelle biblioteche scolastiche, nella scuola, un controllo dei testi, dei libri e dei giochi a disposizione delle bambine, dei bambini, delle ragazze e dei ragazzi nella scuola dell’obbligo. C’è pure una sorta di auto controllo, negli insegnanti, nella scelta dei testi da proporre in classe, fondata sull’idea che le storie debbano trasmettere una morale e soprattutto non urtare la sensibilità dei genitori. Quanti adulti leggerebbero a dei bambini lo straordinario albo illustrato di Wolf Erlbruch intitolato L’anatra, la morte e il tulipano, in cui l’anatra si accorge della morte in persona, che la guarda da vicino e dialoga con essa intrattenendo un discorso poetico, filosofico, di senso fino all’ultimo respiro e all’eterno silenzio?
Tenendo conto del contesto nel quale lavoro (la Svizzera di lingua italiana), mi limito a restituire una percezione molto parziale, seppur sostenuta da ventidue anni di insegnamento e da dieci anni lezioni osservate e discusse con colleghe e colleghi, in veste di docente in un istituto magistrale: mi sembra importante riflettere sul ruolo dell’insegnante nella scuola dell’obbligo, focalizzando l’attenzione sul senso della letteratura a scuola.
Recentemente un maestro ha annunciato ai suoi allievi della scuola elementare di voler leggere con loro un libro che insegna a non dire le bugie e a diventare bravi bambini:
«Il titolo del libro è Pinocchio. Qualcuno lo conosce?», ha chiesto il collega.
Un bambino piuttosto sveglio ha risposto:
«È stato scritto centoquarant’anni fa. Lo conoscono tutti, anche i grandi, ma continuano a dire le bugie. Quindi non serve a nulla».
Dopo la lezione il collega mi ha spiegato che insegnare è diventato sempre più difficile, quando in classe intervengono bambini saccenti e arroganti. E i genitori sono pronti a polemizzare.
Mi sono permesso di obiettare: Pinocchio contiene paura, radici, immaginari, desideri, punti di vista e imprevisti dei quali la letteratura e l’uomo si nutrono. La letteratura «mette al congiuntivo, rende strano, fa sì che l’ovvio sia meno ovvio», scrive Bruner nel suo La mente a più dimensioni (Laterza, Roma-Bari 2005, trad. it. R. Rini). I libri di Maurice Sendak non insegnano ai bambini che devono lavarsi bene i denti, leggendo Pippi calzelunghe non si impara a essere una brava ragazza, Piccolo blu e piccolo giallo non indicano che «i bambini maschi devono tenere i capelli corti» (consiglio, quest’ultimo, che mio figlio deve sentirsi ripetere quasi quotidianamente, da un anno a questa parte, sempre da adulti ben inseriti nel loro sistema di valori). Huckleberry Finn, Peter Pan, il giovane Holden, Jim Hawkins, Alice e tanti altri personaggi letterari non ci danno le ricette su come bisogna comportarsi, ma si offrono in tutta la loro umanità, in un altrove che permette alle lettrici e ai lettori di indossare occhiali diversi per guardare il mondo.
Ho discusso proprio di Pinocchio con un gruppo di bambini di seconda elementare impegnati a leggere il libro di Collodi. Ho trascritto le loro osservazioni:
Se penso a Pinocchio mi vengono in mente le bugie. Sono interessanti perché se togli le bugie ha meno senso la storia.
A me viene in mente il legno.
Il legno è vivo.
…la vita perché la vita è una lotta come il papà di Thomas nel Libro di tutte le cose: Thomas dice che vuole diventare felice, ma il papà risponde che la vita è una lotta. Pinocchio non lo sa, deve ancora viverla.
Quando comincia a diventare un bambino vero, deve ancora cominciare a viverla.
Nella vita si deve far fatica e Pinocchio non vuole far fatica.
La fatica, come Pinocchio che lavora in una fattoria e fa fatica.
La voglia, perché Pinocchio all’inizio non vuole fare nessun mestiere.
È interessante quando finisce nei pasticci a causa del gatto e la volpe.
Mi piace quando scappa da casa, appena fatto, con questo vecchietto che lo rincorre.
Giorgia Grilli mette giustamente in discussione un certo tipo di educazione, un sistema dentro il quale dobbiamo quasi «scegliere tra due opzioni: o piantare i semi perché i bambini diventino dei lettori (invitandoli a guardare anche al di fuori dei valori condivisi) o predisporre percorsi per farli diventare bravi cittadini» (p.116). Il compito, molto difficile, degli insegnanti, credo che sia quello di muoversi entro la tensione, viva, tra la letteratura, per propria natura sovversiva, e l’educazione: le forme libere del pensiero critico a cui mirare mettono in contatto queste due dimensioni.
I docenti esecutori
Il richiamo all’opera di Guus Kuijer (Il libro di tutte le cose, Salani, Milano 2008, trad. it. D.S. Fiano) da parte di un allievo in grado di confrontare le storie (dalla tensione umana che vive in Pinocchio alla ricerca della felicità da parte di Thomas, protagonista del romanzo di Kuijer) per ragionarci è sorprendente. Aveva forse ragione un altro collega, che ventidue anni fa, sorseggiando l’ultimo caffè, alla soglia della pensione, mi sussurrò un commento come fosse un regalo del saggio a chi, come il sottoscritto, stava entrando in punta di piedi nelle aule: «Tu lo sai che la letteratura nella scuola dell’obbligo è più interessante dei festival letterari dove gli intellettuali se la cantano? È a scuola che ti scontri con la realtà dei ragazzi e di quello che gli gira attorno». Era un intellettuale al quale non piacevano gli intellettuali. Aggiunse: «Vuoi fare l’insegnante? Ricordati che non sarai un impiegato, ma sarai molto impegnato. È l’unico modo per stare a galla e per non addormentare il tuo orizzonte. La scuola non perdona: chiede tempo e non dà tempo, chiede energie e non sempre puoi averle. Porta la letteratura in classe e te ne accorgerai. Auguri ragazzo».
E andò in pensione a scrivere il suo quaderno di memorie, mai pubblicato (finora) e di cui ogni tanto mi invia qualche passaggio di rara sensibilità, in cui ritrovo le prospettive che ha tanto amato: quella dell’infanzia (con gli occhi verso l’altrove) e quella dell’adolescenza (corpo e mente nel passaggio).
Al di là di questi episodi, potremmo dibattere a lungo sull’identità formativa della scuola, sull’importanza della lentezza di cui necessita la conoscenza e sulla necessaria resistenza che la scuola dovrebbe garantire, a volte anche in una sorta di contrappeso a quanto avviene fuori dalle mura. Idealmente potremmo ad esempio affermare che, alle immagini subìte dai ragazzi attraverso i social, la scuola si oppone sensibilizzando i giovanissimi alla faticosa verifica delle fonti, cercando di sviluppare nei futuri cittadini uno sguardo critico; di fronte all’esigenza di asservire una realtà tangibile e utile, la scuola risponde favorendo l’esperienza dell’immaginario, del poetico, delle possibilità; alla semplificazione e alla banalizzazione la scuola si oppone con la complessità dei testi, delle argomentazioni, della logica, dell’indagine, della scoperta, dei dubbi da seminare per rafforzare le tesi; al culto del corpo perfetto modellato su riferimenti impossibili e sulla competizione malata, la scuola si contrappone con un’educazione al movimento e al rispetto di sé e dell’altro.
Sto dipingendo un ideale, eppure senza un’idea costitutiva della scuola, ma anche della “professione docente”, non rimane che un orizzonte dormiente. Senza una consapevolezza rispetto al proprio ruolo, la scuola diventerebbe un facile bersaglio per chi desidera indebolire un’istituzione culturale già oggi purtroppo spesso ridotta a “servizio di misurazione”. E i docenti, da persone che attraverso la cultura sono in grado di lasciare un segno, si scoprirebbero disimpegnati, alienati esecutori al servizio dei contribuenti (che avrebbero comunque sempre ragione). Sarebbe molto pericoloso, anche per la democrazia.
Non siamo tutti uguali
La Svizzera è uno Stato federale, quindi il potere statale è suddiviso tra la Confederazione, i Cantoni e i comuni, con ruoli diversi: la responsabilità e la regolamentazione della scuola è dei Cantoni. In Ticino, relativamente alla scuola media, in questo momento è in corso un dibattito che riguarda soprattutto gli ultimi due anni di scuola media. Il Governo propone di integrare delle ore di laboratorio con metà classe per la matematica, il tedesco, in gruppi composti da undici allievi con competenze diverse. Per quanto riguarda l’italiano, è stato introdotto un laboratorio di questo tipo (due ore settimanali) in prima e nell’ultimo anno di scuola media. C’è chi preferirebbe però una scuola strutturata su più livelli, separando gli allievi con competenze avanzate da coloro che dimostrano più difficoltà nell’apprendimento (sperando che la suddivisione, per chi si trova a metà strada, tra i bravi e i meno bravi, non sia affidata alle sfere di cristallo).
Con sfumature diverse, anche i gruppi politici presenti nel parlamento stanno cercando di approfondire il tema, riflettendo soprattutto sul tema dell’orientamento professionale: orientare significa aiutare il giovane a scegliere una via dopo la scuola media. In Svizzera possiamo vantare un sistema duale, cioè un contratto che consente ai giovani di frequentare un percorso di formazione professionale e contemporaneamente di essere assunti in un’azienda come apprendisti. Si tratta di una delle possibilità formative, assieme alle scuole professionali a tempo pieno, ai licei, eccetera.
Pensando quindi alla scuola media e al ruolo che assume, c’è chi pensa sia necessario che gli allievi sviluppino le loro attitudini e i loro interessi con percorsi opzionali differenziati, in classi più piccole e in più materie. Da un lato si propone un approccio più astratto e con obiettivi d’approfondimento. Ad esempio, per l’italiano, competenze letterarie basate sulla dimensione estetica, formale, culturale. Dall’altro, ad esempio per l’italiano, una formazione linguistica pragmatica e basata su di un uso funzionale e quotidiano della lingua.
Quest’ultima proposta mette in discussione l’idea costitutiva della scuola e mette in discussione il senso di una disciplina, l’italiano, prestato, al servizio di apparenti necessità concrete. Che ce ne facciamo della letteratura?
Se non mi ami ti spacco la testa
Recentemente ho deciso di leggere ad allieve e allievi quattordicenni questa poesia di Lalla Romano1:
Il vento fuggendo rapisce ai comignoli il fumo,
e come una chioma leggera l’arriccia e disperde.
Volubile e tenue s’effonde nel tempo la vita,
così come labile fumo dilegua nel vento.
Osservo i ragazzi. Sono perplessi, inizialmente non osano esprimersi, ma a un certo punto M. dice: «Noi abbiamo ancora tutto il tempo per vivere. Almeno settant’anni. Questa poesia sul tempo che passa come fosse fumo, boh…». «Non vediamo l’ora che passi. Che finisca la quarta media!», aggiunge T. «La poesia è inutile», aggiunge C., prima della bomba finale: «Tutta la poesia è inutile, cioè, non è pratica».
Metto in evidenza unicamente i tre interventi scomodi, che mi ricordano il bambino espressosi sul senso di Pinocchio. Cerco di non rinunciare al mio ruolo, di lavorare sulle parole e sulla struttura con tutti, nel laboratorio («tutti gli usi della parola a tutti», penso mentre sviluppo le lezioni). Osservo questi giovani e cerco di capire la distanza tra i loro bisogni e l’idea che la letteratura serve all’utopia, all’impegno politico, all’uomo intero. Voglio che allieve e allievi vivano questa distanza. Sta a me connetterli, non senza difficoltà, al testo.
Al di là della poesia, in ogni lingua e in ogni parte del mondo la narrazione è la grammatica fondamentale di ogni forma di pensiero; la nostra epoca avrebbe necessità di immaginazione, punti di vista nuovi, anche pensando a chi si orienta verso una formazione professionale, solo apparentemente legata ad aspetti funzionali della lingua. Tutti i futuri citoyens, che eserciteranno i propri diritti politici in un sistema democratico, hanno bisogno di una tensione verso il pensiero critico, la bellezza, la capacità di analisi.
Una scuola che allontana allieve e allievi dalla dimensione estetica e culturale sbaglia, perché allontana i ragazzi anche dall’empatia, dalla capacità di “stare dentro” a problemi complessi con quella pazienza cognitiva che Maryanne Wolf ha ben descritto nel suo recente Lettore, vieni a casa (Vita e pensiero, trad. it. P. Villani, Milano 2019). Gli adolescenti devono orientarsi nella complessità della lingua, del crescere, delle relazioni.
Scrive Bruno Tognolini, nelle sue Rime di rabbia (Salani Editore, Milano 2010):
Mare in burrasca, terra in tempesta
Se non mi ami, ti spacco la testa.
A cosa potrebbe “servire” il libro di Bruno Tognolini, in questa nostra epoca difficile?
Le parole sono cibo
Ai significati, alle interpretazioni, ai prolungamenti della letteratura non offrirei “l’uso funzionale della lingua” come alternativa. Credo anche che l’uso funzionale non sia affatto scontato: considerare una “formazione pragmatica” come soluzione adeguata per coloro che desiderano svolgere un apprendistato è credo riduttivo.
Un esempio: nella scuola media è utile per tutti approfondire i concetti di causa, effetto, fine, ipotesi? Direi di sì. Secondo esempio: della Shoah scompaiono i testimoni, ma rimangono testi letterari che devono essere letti dai bambini e dai ragazzi. Direi da tutti. Da chi “maneggia” motori, travi, farmaci, provette, mattoni, piani finanziari, cavi elettrici, numeri, leggi, teste, capelli, vite: essere citoyens non è prerogativa degli intellettuali, né degli studenti liceali. Tutti gli usi della parola a tutti.
«La funzione creatrice dell’immaginazione appartiene all’uomo comune, allo scienziato, al tecnico; è essenziale alle scoperte scientifiche come alla nascita dell’opera d’arte; è addirittura condizione necessaria della vita quotidiana» scrive Gianni Rodari nel capitolo “immaginazione, creatività, scuola” che troviamo nella Grammatica della fantasia (Einaudi, Torino 1973).
«Le fiabe servono alla matematica come la matematica alle fiabe. Servono alla poesia, alla musica, all’utopia, all’impegno politico: insomma, all’uomo intero, e non solo al fantasticatore».
Ci sono statistiche spaventose riportate da Maryanne Wolf in Proust e il calamaro, Storia e scienza del cervello che legge (Vita e Pensiero, trad. it. S. Galli, Milano 2018, p. 25), riferite a un’indagine svolta in California: i bambini “linguisticamente poveri” ascoltano mediamente 32 milioni di parole in meno rispetto a coloro che crescono in un ambiente familiare favorevole, dove sia possibile leggere, ascoltare storie, comunicare con l’adulto al di là delle frasi “utilitarie”.
C’è una storiella che molti conoscono: è quella di un nipote che ascolta le parole e i racconti di un nonno. L’anziano spiega al giovane che nel petto delle persone vivono due lupi costantemente in lotta. Il primo è un lupo violento, aggressivo, pronto a odiare, mentre il secondo è pieno di amore, luce e armonia. Il ragazzo, che ha ascoltato attentamente la voce del nonno, chiede quale dei due lupi avrà la meglio.
«Quello cui diamo da mangiare», risponde l’uomo.
NOTE
- Il vento, in Poesie, Einaudi, Torino 2001, p. 143.