Mentre la comunità globale si prepara a compiere la transizione dai Millenium Development Goals ai Sustainable Development Goals, la sua attenzione si sposta sempre di più dalla riduzione della povertà a una prospettiva più ampia, in grado di conciliare le priorità socio-economiche con quelle ambientali. Nei prossimi 15 anni, la ricerca scientifica svolgerà un ruolo chiave nel monitorare le tendenze rilevanti in settori come la sicurezza alimentare, la salute, l’acqua e i servizi igienico-sanitari, l’energia, i cambiamenti climatici e la gestione degli ecosistemi oceanici e terrestri. Le donne svolgeranno un ruolo essenziale nell’attuazione degli obiettivi dello sviluppo sostenibile, aiutando a identificare i problemi globali e a trovarne le soluzioni. Poiché gli uomini tendono a godere di uno status socio-economico più alto, le donne sono sia colpite in modo sproporzionato da siccità, inondazioni e altri eventi meteorologici estremi, sia emarginate quando si tratta di prendere decisioni in materia di green recovery e di adattamento (EIGE, 2012).
Alcuni settori economici saranno fortemente colpiti dal cambiamento climatico, ma donne e uomini non saranno plausibilmente colpiti in egual misura. Nel campo del turismo, ad esempio, le donne nei Paesi in via di sviluppo tendono a guadagnare meno delle controparti maschili e occupano meno posizioni manageriali. Sono più presenti anche nel settore informale non agricolo: 84% nell’Africa subsahariana, 86% in Asia e 58% in America Latina (OMC e UN Women, 2011). Esistono, quindi, chiare differenze di genere nella capacità di far fronte agli shock indotti dai cambiamenti climatici.
Nonostante ciò, le donne non sono rappresentate equamente nei settori chiave della scienza legati al cambiamento climatico. Sebbene siano abbastanza presenti in alcune discipline, tra cui le scienze della salute, le scienze agrarie e la scienza ambientale, sono decisamente una minoranza in altri settori che saranno vitali per la transizione verso lo sviluppo sostenibile, come l’energia, l’ingegneria, i trasporti, le tecnologie dell’informazione e l’informatica, quest’ultima particolarmente cruciale. Anche nei campi scientifici in cui sono presenti, inoltre, le donne sono sotto-rappresentate nei processi di policy making e di elaborazione di programmi di intervento. L’ex Repubblica jugoslava della Macedonia è un esempio calzante: le donne sono ben rappresentate nelle strutture governative legate alle decisioni sui cambiamenti climatici, come l’energia e i trasporti, l’ambiente e i servizi sanitari. Sono anche relativamente presenti nelle discipline scientifiche correlate, e molte fanno parte del National Climate Change Committee. Tuttavia, la loro partecipazione è scarsa quando si tratta di progettare e attuare piani di intervento, di interpretare le decisioni e di monitorare i risultati (Huyer, 2014).
Il tubo che perde
Quando si affronta il tema della partecipazione delle donne alla ricerca nel complesso, a livello globale, ci troviamo davanti al fenomeno definito leaky pipeline, letteralmente “tubo che perde”. Le donne stanno attivamente portando a termine lauree triennali e magistrali, superando persino gli uomini, poiché rappresentano il 53% dei laureati. Tuttavia il loro numero cala bruscamente al livello del dottorato, dove sono superate dai diplomati maschi (57%). La discrepanza si allarga ulteriormente a livello della ricerca universitaria, dove gli uomini rappresentano il 72% del pool globale. L’alta proporzione delle donne nell’istruzione superiore non si traduce, quindi, necessariamente in una maggiore presenza nella ricerca. Sebbene a livello globale rappresentino solo il 28% dei ricercatori, secondo i dati disponibili, questa cifra nasconde ampie variazioni a livello nazionale e regionale.
Il soffitto di cristallo è ancora intatto
Ai vertici della ricerca scientifica vi sono pochissime donne. Nel 2015, il Commissario dell’UE per la Ricerca, la Scienza e l’Innovazione Carlos Moedas ha richiamato l’attenzione su questo fenomeno, aggiungendo anche che la maggior parte degli imprenditori nel settore della scienza e dell’ingegneria sono uomini. In Germania, l’accordo di coalizione firmato nel 2013 introduce una quota del 30% per le donne nei consigli di amministrazione aziendali.
Sebbene i dati relativi alla maggior parte dei Paesi siano limitati, sappiamo che nel 2010 le donne costituivano il 14% dei rettori universitari e dei vicerettori delle università pubbliche brasiliane (Abreu, 2011) e nel 2011 il 17% di quelle sudafricane. In Argentina, formavano il 16% dei direttori e vicedirettori dei centri di ricerca nazionali (Bonder, 2015) e, in Messico il 10% dei direttori degli istituti di ricerca scientifica dell’Università Nazionale Autonoma. Negli Stati Uniti, i numeri sono leggermente più alti, attestandosi attorno al 23% (Huyer e Hafkin, 2012).
Nell’Unione Europea nel 2010 meno del 16% degli istituti di educazione superiore e solo il 10% delle università (UE, 2013) erano diretti da una donna. All’Università delle Indie Occidentali, l’istituzione universitaria più importante dei Caraibi anglofoni, nel 2011 le donne rappresentavano il 51% dei docenti, ma solo il 32% dei docenti senior e il 26% dei professori ordinari. Le donne costituiscono oltre il 25% dei membri delle Accademie Nazionali delle Scienze solo in pochi Paesi, tra cui Cuba, Panama e il Sud Africa. L’Indonesia merita una menzione d’onore, con il 17% di donne (Henry, 2015).
Queste tendenze sono evidenti anche in altre sfere del processo decisionale scientifico: le donne sono poco presenti nella valutazione tra pari, nei comitati editoriali e nei consigli di ricerca.
Le tendenze nell’educazione universitaria
L’assenza di donne ai vertici delle carriere scientifiche è sorprendente, visti i progressi verso la parità di genere riscontrati in tutti i livelli dell’istruzione negli ultimi decenni. Globalmente la bilancia è persino arrivata a oscillare dalla parte femminile, anche se non in tutte le aree del mondo.
Le studentesse universitarie sono più degli studenti uomini in Nord America (57%), in Centro e Sud America (49–67%) e ancor di più nei Caraibi (57–85%). L’Europa e l’Asia occidentale mostrano un andamento simile, con l’eccezione della Turchia e della Svizzera, dove le donne rappresentano circa il 40% degli iscritti all’università, e del Liechtenstein (circa il 21%). Nella maggioranza degli Stati arabi si può osservare la medesima tendenza verso la parità di genere, con l’eccezione di Iraq, Mauritania e Yemen, dove il numero delle studentesse scende al 20-30%. I dati del Marocco mostrano un andamento ciclico dal 2000, ma un aumento generale delle iscrizioni femminili al 47% nel 2010. Nell’Africa subsahariana invece i numeri sono sostanzialmente inferiori, riflettendo uno squilibrio di genere in tutti i livelli dell’istruzione. La rappresentanza femminile nelle aule universitarie è diminuita notevolmente nello Swaziland, dal 55% nel 2005 al 39% nel 2013. In Asia meridionale rimane bassa, con la notevole eccezione dello Sri Lanka (61%).
Nel complesso, le donne hanno maggiori probabilità di ricevere un’istruzione superiore in Paesi con livelli di reddito relativamente elevati e meno nei Paesi a basso reddito, la maggior parte dei quali nell’Africa subsahariana, come l’Etiopia (31%), l’Eritrea (33%), la Guinea (30%) e il Niger (28%). Nella Repubblica Centrafricana e in Ciad, gli studenti sono 2,5 volte più delle studentesse.
Eccezioni notevoli tra i Paesi a basso reddito sono le Comore (46%), il Madagascar (49%) e il Nepal (48%). In Asia, le studentesse affrontano notevoli disparità in Afghanistan (la percentuale di studentesse dell’istruzione superiore è del 24%), Tagikistan (38%) e Turkmenistan (39%), ma negli ultimi anni la percentuale è in aumento in Cambogia (38% nel 2011) e in Bangladesh (41% nel 2012). Negli Stati arabi, il tasso di partecipazione più basso riguarda le donne yemenite (30%). Gibuti e Marocco hanno aumentato la quota di studentesse universitarie oltre il 40%.
Un leggero aumento della ricchezza nazionale può essere correlato a un calo delle disparità di genere. I Paesi dell’Africa subsahariana con livelli di ricchezza più elevati riportano anche tassi di partecipazione universitaria femminile più alti. Ad esempio, il 59% degli studenti sono donne a Capo Verde e il 54% in Namibia. Tuttavia, vi sono notevoli eccezioni tra i Paesi ad alto reddito. Gli uomini continuano a superare le donne in Liechtenstein, Giappone e Turchia.
La ricerca empirica ha evidenziato diverse ragioni dietro alla crescente partecipazione delle donne all’istruzione superiore. Essa è percepita come un mezzo per salire la scala sociale (Mellström, 2009). Avere un’istruzione superiore consente di raggiungere livelli di reddito più elevati, anche se le donne sono obbligate a studiare più anni rispetto agli uomini per assicurarsi posti di lavoro con una retribuzione comparabile. E questa è una tendenza riscontrabile in tutto il mondo.
Molti Paesi, come l’Iran e la Malesia, sono anche ansiosi di espandere la loro forza lavoro qualificata, al fine di sviluppare un’economia della conoscenza e di aumentare la loro competitività globale. Un’altra spiegazione, infine, risiede nelle varie campagne per l’uguaglianza di genere messe in atto da numerose organizzazioni negli ultimi decenni.
Le tendenze nelle facoltà scientifiche
Sebbene le donne laureate siano generalmente più numerose dei maschi, pur con variazioni nazionali e regionali, le cose cambiano se scomponiamo i dati considerando diversi settori di studio: scienze, ingegneria, agraria e scienze della salute. La buona notizia è che nel complesso la quota di laureate in ambito scientifico è in aumento. Questa tendenza è stata più marcata dal 2001 in tutte le regioni in via di sviluppo ad eccezione dell’America Latina e dei Caraibi, dove la partecipazione femminile era già elevata.
La presenza delle donne, tuttavia, varia a seconda del campo di studio. Al momento sono la maggioranza nelle scienze della salute e del benessere in quasi tutti i Paesi, ma non nelle altre scienze. Ad esempio hanno meno probabilità di laurearsi in ingegneria. Vi sono però anche eccezioni alla regola. In Oman le donne rappresentano il 53% dei laureati in ingegneria e sono una minoranza nelle scienze della salute e del benessere in quattro Paesi sub-sahariani e due asiatici, Bangladesh (33%) e Vietnam (42%).
Sebbene non quanto nell’ambito delle scienze della salute, le donne che studiano scienze sono altrettanto e in certi casi più numerose degli uomini soprattutto nei Paesi latinoamericani e arabi. Nei dieci Paesi dell’America Latina e dei Caraibi che hanno reso disponibili i dati, sono il 45%. Costituiscono oltre la metà dei laureati a Panama e in Venezuela, nella Repubblica Dominicana, Trinidad e Tobago (quest’ultima peraltro ha una popolazione di laureati molto ridotta). In Guatemala il 75% dei laureati in scienze sono donne e ben undici Stati arabi su 18 hanno una maggioranza di laureate in scienze.
I Paesi dell’Asia meridionale per cui sono disponibili i dati (Bangladesh e Sri Lanka) rivelano medie del 40-50%, mentre alcuni Paesi dell’Asia orientale e sudorientale mostrano percentuali del 52% o più: Brunei Darussalam (66%), Filippine (52%), Malesia (62%) e Myanmar (65%).
Giappone e Cambogia hanno invece percentuali basse, rispettivamente del 26% e dell’11% e la Repubblica di Corea una quota che si aggira attorno al 39%. I tassi di laurea per le donne in Europa e Nord America vanno da un massimo del 55% in Italia, Portogallo e Romania a un minimo di 26% nei Paesi Bassi. Seguono Malta e Svizzera rispettivamente con il 29% e il 30%. La maggior parte dei Paesi rientra nell’intervallo 30-46%.
All’interno del vasto campo della scienza si possono osservare alcune tendenze interessanti. Le donne laureate sono molto rappresentate nelle scienze della vita, spesso oltre il 50%. Tuttavia, la loro presenza negli altri campi è molto diversa. In Nord America e in gran parte dell’Europa poche si laureano in fisica, matematica e informatica, ma in altre regioni la percentuale di donne può essere vicina alla metà, per quanto riguarda queste materie.
Più donne in agraria e meno in ingegneria
Le tendenze riscontrabili nello studio delle scienze agrarie raccontano una storia interessante. Dal 2000 in tutto il mondo si è verificato un aumento costante di laureate donne. Le ragioni non sono chiare, ma una probabile spiegazione risiede nella crescente enfasi sulla sicurezza alimentare. Un’altra possibile spiegazione è che le donne sono altamente rappresentate nelle biotecnologie. Ad esempio in Sudafrica nel 2004 erano poco presenti nell’ingegneria (16%) e nelle scienze naturali (16%) ma figuravano come il 52% dei dipendenti di aziende legate alla biotecnologia.
Le donne sono costantemente meno rappresentate nel settore dell’ingegneria, nell’industria manifatturiera e nell’edilizia. In molti casi l’ingegneria ha perso terreno rispetto ad altre scienze, inclusa agraria. Tuttavia, esistono eccezioni: la quota di donne laureate in ingegneria è aumentata nell’Africa subsahariana, negli Stati arabi e in alcune parti dell’Asia. Dei 13 Paesi subsahariani che forniscono i dati necessari, sette vedono un aumento sostanziale (più del 5%) di donne ingegnere, a partire dal 2000, e dei sette Paesi arabi quattro hanno una percentuale costante o in aumento. Le quote più alte si trovano negli Emirati Arabi Uniti e in Palestina (31%), in Algeria (31%) e in Oman, con un sorprendente 53%. Alcuni Paesi asiatici mostrano tassi simili: 31% in Vietnam, 39% in Malesia e 42% in Brunei Darussalam. I numeri in Europa e in Nord America al contrario sono generalmente bassi: 19% in Canada, Germania e Stati Uniti e 22% in Finlandia, ad esempio, ma ci sono alcune eccezioni positive: il 50% dei laureati in ingegneria sono donne a Cipro e il 38% in Danimarca.
I dati, dal 2000, mostrano una diminuzione costante delle laureate in informatica, particolarmente nei Paesi ad alto reddito. Fanno eccezione in Europa la Danimarca, dove le laureate sono aumentate dal 15% al 24% tra il 2000 e il 2012, e la Germania, che ha visto un aumento dal 10% al 17%. Si tratta in ogni caso di percentuali ancora molto basse.
Preoccupa la situazione in America Latina e nei Caraibi: in tutti i Paesi, la quota di donne laureate in informatica è scesa tra i 2 e i 13 punti percentuali. Questo dovrebbe essere senz’altro un campanello d’allarme. La partecipazione femminile diminuisce proprio in un campo che si sta espandendo a livello globale, che ha una crescente importanza per le economie nazionali e che penetra in ogni aspetto della vita quotidiana. Potrebbe essere un sintomo del fenomeno per cui le donne sono le prime a essere assunte e le prime a essere licenziate una volta che un’azienda accumula prestigio e aumenta la retribuzione del personale, o quando le aziende si trovano in difficoltà finanziarie.
Rispetto a queste tendenze vi sono alcune eccezioni degne di nota. Il settore delle tecnologie dell’informazione (IT) malese è composto equamente da donne e uomini, sia in università sia nel settore privato. Questo dato è il prodotto di due tendenze storiche: la predominanza delle donne nel settore dell’industria elettronica malese (precursore dell’industria IT) e la spinta nazionale per raggiungere una cultura “pan-malese”, al di là dei tre gruppi etnici, indiano, cinese e malese, che compongono la popolazione. I fondi del governo per l’istruzione di tutti e tre i gruppi funzionano per quote etniche, e poiché pochi uomini del gruppo malese sono interessati all’informatica, vi è più spazio per le donne. Inoltre, le famiglie tendono a sostenere l’ingresso delle figlie in questo settore prestigioso e ben remunerato (Mellström, 2009).
Anche in India, il sostanziale aumento delle donne laureate in ingegneria può essere ricondotto al giudizio favorevole da parte dei genitori, poiché questo tipo di istruzione verosimilmente assicurerà alle loro figlie un buon impiego e un matrimonio vantaggioso. Altri fattori includono l’immagine “amichevole” dell’ingegneria in India, rispetto alle scienze informatiche, e il facile accesso all’istruzione ingegneristica derivante dall’aumento del numero di istituti di ingegneria femminile negli ultimi due decenni (Gupta, 2012).
Gli ostacoli alla partecipazione femminile
Una combinazione di diversi fattori riduce la percentuale di donne in ogni fase della carriera scientifica.
Per quanto riguarda l’ambiente universitario, uno studio del 2008 sulle intenzioni di carriera degli studenti laureati in chimica nel Regno Unito ha scoperto che il 72% delle donne aveva pianificato di diventare ricercatrice all’inizio degli studi ma, alla fine del dottorato di ricerca, solo il 37% nutriva ancora lo stesso obiettivo.
Le studentesse hanno più possibilità di avere problemi con il loro supervisore, di subire favoritismi o atteggiamenti persecutori, o che la loro vita personale o familiare non conti, ma anche di sentirsi isolate rispetto al gruppo di ricerca. Le donne generalmente sono anche più a disagio con le modalità di lavoro, gli orari o la competizione tra colleghi. Di conseguenza considerano la carriera accademica come il presupposto di un’esistenza solitaria; si sentono intimidite dall’atmosfera competitiva e temono che il lavoro in ambito accademico richieda troppi sacrifici rispetto ad altri aspetti della loro vita.
Molte donne hanno anche dichiarato di essere state sconsigliate dal perseguire una carriera scientifica proprio per le difficoltà che avrebbero dovuto affrontare in quanto donne (Royal Society of Chemistry, 2008). In Giappone, le studentesse universitarie di ingegneria si sono lamentate di avere difficoltà nell’avvicinare gli insegnanti per porre loro domande (Hosaka, 2013).
Il “muro materno” deriva dall’aspettativa che le prestazioni lavorative di una donna saranno influenzate dal congedo di maternità, o dai permessi per prendersi cura della famiglia (Williams, 2004). In alcuni Paesi, una volta che le donne hanno intrapreso una carriera scientifica, le loro traiettorie lavorative tendono a essere meno stabili di quelle degli uomini e caratterizzate da incarichi a tempo determinato e temporaneo, piuttosto che a tempo pieno (Kim e Moon, 2011). Invece di incoraggiare il lavoro flessibile, negli ambienti di lavoro e di ricerca universitari ci si aspetta che le donne si adattino e “diventino come gli uomini”.
Le valutazioni delle prestazioni accademiche sono legate al concetto di produttività, che include il numero di pubblicazioni e i brevetti d’autore, il tasso di citazioni di questi documenti e l’importo dei finanziamenti ottenuti. Nella scienza, la produttività si misura in termini di ricerca, di insegnamento e di servizio (come l’appartenenza a comitati scientifici), con la ricerca che tende ad avere il maggior peso. Le pubblicazioni in riviste di prestigio o gli atti di convegni si collocano al primo posto e l’insegnamento al posto più basso.
Tuttavia le ricerche negli Stati Uniti indicano che nelle facoltà le donne tendono a concentrarsi sull’insegnamento e sul servizio piuttosto che sulla ricerca. Allo stesso tempo, i giovani ricercatori dovrebbero passare 80-120 ore settimanali in laboratorio, cosa che pone le donne con bambini in condizioni di immediato svantaggio (CMPWASE, 2007).
Universalmente, il tasso di pubblicazione delle ricercatrici è più basso di quello dei ricercatori, sebbene vi siano alcune lacune nei dati. Le donne sudafricane hanno scritto il 25% degli articoli pubblicati nel 2005, quelle coreane il 15% nel 2009 (Kim e Moon, 2011) e quelle iraniane circa il 13%.
Recenti ricerche suggeriscono che la principale spiegazione di questa tendenza risiede nell’accesso limitato delle donne a finanziamenti e nel loro status accademico generalmente inferiore: sono meno presenti degli uomini in università prestigiose e tra i docenti senior, ovverosia proprio nelle posizioni in cui i ricercatori pubblicano di più (Williams, 2011).
Tratto da: S. Huyer, Is the gender gap narrowing in science and engineering?, UNESCO Science Report, 2018.
Traduzione di Francesca Nicola.
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