Ricordo bene che fino a non troppi anni fa, quando si parlava di lavoro in chiave di genere la distinzione tra maschi e femmine si imponeva come una legge di natura: c’erano mestieri adatti agli uni e mestieri adatti alle altre. Anche se poi – si aggiungeva – restringendo il campo d’osservazione alla sola eccellenza, si scopriva non esserci più confronto possibile. Le prove erano sotto gli occhi di tutti: «le donne cucinano», si diceva, «ma a voler cercare il grande Chef si trova un uomo!» (e questo argomento, insieme alla sua variante sul rapporto tra sarte e Stilista, bastava a confermare la convinzione).
Ma io sono un boomer, figlio della generazione che aveva faticato persino a riconoscere alle donne il raziocinio per diventare giudice.
Da allora molto è cambiato e tanti pregiudizi sono stati scardinati, così che oggi si troverebbe a fatica qualcuno, dotato di buon senso, disposto a ripetere affermazioni simili in contesti civili.
Il cammino verso la parità di genere, nei fatti e nelle coscienze, ha fatto passi notevoli nel nostro Paese, anche se l’obiettivo appare ancora lontano. Così, se si sono avuti netti miglioramenti in alcuni ambiti (istruzione, decisionalità politica ed economica), permangono forti squilibri in altri: nella ripartizione dei lavori domestici, per esempio, come nella retribuzione e nell’occupazione professionale.
Nell’ambito specifico di cui ci occupiamo qui, poi, le distanze sono ancora talmente grandi da parere difficilmente colmabili. Per lo meno nel breve periodo.
Nelle pagine che seguono ci si interroga sul perché.
Sul perché, cioè, gli ambiti del sapere scientifico, matematico, ingegneristico e tecnologico siano ancora infeudati al genere maschile, almeno nel nostro Paese e nel mondo occidentale in genere.
Ne emergono riflessioni e spunti interessanti, talora stranianti.
Alla base, concordano tutti, c’è la colpevole disincentivazione di un’educazione che propugna modelli sociali ghettizzanti. È cosa nota e su cui si potrebbe intervenire con relativa facilità. Si “potrebbe”, intendo, se a ottener l’effetto fosse sufficiente la pura cura linguistica, sostanziata di declinazioni e desinenze inclusive. Attenzione importante, certo, ma inefficace a intercettare da sola il cuore del problema.
Questo, in effetti, sembra essere più radicato e profondo, e toccare l’essenza stessa del nostro sentirci uomini e donne. La studiosa californiana Maria Charles, per esempio, ipotizza che i tradizionali stereotipi di genere si rafforzino anche grazie al contributo di tante donne che, libere dal bisogno economico immediato, nell’adesione a tali modelli sembrerebbero ritrovare il nucleo autentico della propria identità. Ne deriverebbe una segregazione in parte autoinflitta, figlia del benessere. Un “lusso da ricchi”, insomma.
Il quale, come tutti i lussi, sembra intenzionato a farsi pagare, e con gli interessi.
A guardare le statistiche mondiali, infatti, si scopre che i paesi più avanzati nel campo dell’integrazione femminile in ambito STEM sono gli stessi che, emergenti o già prepotentemente emersi, l’immaginario collettivo (occidentale) bolla come discriminatori e misogini.
L’apparente paradosso, oltre a interrogarci sulla fondatezza delle nostre opinioni comuni, dovrebbe con urgenza farci riflettere sul pericolo che stiamo più o meno consapevolmente correndo. Lo riassume bene Paola Parente, formatrice ed orientatrice italiana, sottolineando come le sfide scientifiche e tecnologiche che il mondo pone con sempre maggiore urgenza richiederanno a stretto giro il coinvolgimento più incisivo di tutte le intelligenze disponibili, quali che ne siano gli attributi sessuali.
Un’idea così semplice da sfiorare la banalità. Un po’ come dire che, in una gara di corsa, avendone la disponibilità è meglio usare entrambe le gambe.