Uno degli aspetti più intriganti di Titane, il film di Julia Ducournau vincitore del Festival di Cannes 2021, è la conturbante figura del/della protagonista Alexia/Adrien, non solo duplice ma attiva/passiva responsabile d’una finzione identitaria.
Sebbene il vincolo della suspension of disbelief non sia particolarmente avvertito dalla regista francese (che danza spudoratamente sul filo del verosimile), Titane funziona perché la vicenda di Alexia/Adrien soddisfa le due condizioni necessarie per la buona riuscita di uno scambio di persona: annichilire l’identità precedente (sia pure in modo imperfetto, dato che il sé primario resta sempre latente) e godere dell’altrui credito circa l’identità simulata.
La prima condizione è ottenuta tramite un accurato – e dolorosissimo – lavoro sul proprio aspetto, onde potersi presentare come un uomo (Alexia crea discontinuità rispetto a sé stessa dissimulando, o per meglio dire mortificando fino al martirio, la propria femminilità).
La seconda, decisiva, condizione, non dipende da lei ma da chi la circonda. Si regge sulla disponibilità, anzi sul disperato bisogno di credere da parte di un genitore (Vincent, vigile del fuoco sconvolto dalla scomparsa del figlio Adrien, avvenuta dieci anni prima) che è padre-padrone di una comunità a lui totalmente devota (nel film, una squadra di giovani sapeurs pompiers).
Ora è interessante che queste due stesse condizioni siano ricordate, illustrate ed esemplificate in un saggio che ricostruisce la secolare storia della mistificazione in ambito letterario: Fenomenologia dell’impostore. Essere un altro nella letteratura moderna (Roma, Salerno, 2021) di Giancarlo Alfano.
Rispetto ad operazioni simili compiute da grandi studiosi delle generazioni precedenti – penso, per limitarmi a un solo nome, al magistrale Mario Lavagetto di La cicatrice di Montaigne: sulla bugia in letteratura (1992, 2002) – convinti assertori della necessità di servirsi di un’ampia strumentazione multidisciplinare, Alfano arricchisce ulteriormente la cassetta degli attrezzi, attingendo dalla ricerca storica, dalla filosofia, dall’antropologia, dalla sociologia, dalla psicoanalisi. Il dato letterario viene così imbrigliato entro una rete di riferimenti ampia e articolata, onde coglierne il valore di documento epocale, senza per questo perdere di vista – com’è cruciale – la specificità del medium (sensibilità filologica, linguistica, formale; acribia teorico-critica con particolare attenzione agli elementi di continuità, e discontinuità, nell’evolversi di generi e codici).
È questo, crediamo, il solo modo di fare onestamente storia della cultura: mettere in gioco le proprie competenze disciplinari per contribuire a illuminare un problema posto all’intersezione di più campi del sapere, e per questo oggettivamente irriducibile a ogni chiusura specialistica (l’arroccamento settoriale) come a ogni semplificazione tuttologica. Da questo punto di vista lo studio di Alfano richiama altre operazioni di simile tenore apparse in questi anni, come ad esempio il saggio di Attilio Scuderi sulla tradizione libertina di cui abbiamo parlato qui.
Fenomenologia dell’impostore è diviso in tre parti, abbracciando altrettante fasi di storia letteraria europea: l’età medievale e umanistica (Nascite dell’individuo), l’Ancien Régime (Giochi di società), il mondo contemporaneo (Uno dei nostri). Per ciascuna di queste macro-ere vengono passati in rassegna alcuni testi rappresentativi, attraverso i quali è dato delineare una storia del concetto e della prassi dell’impostura (congegni retorici, artifici stilistici, meccanismi performativi) che è insieme una storia dinamica del concetto di individuo nell’Occidente post-classico e delle sue interazioni con la mentalità collettiva.
Il bilanciamento tra fiducia e credenza che rende possibile l’attuarsi dello scambio di persona si declina così in perlomeno tre varianti epocali (semplifico, qui, il discorso d’autore, ma senza tradirne, credo, le grandi linee d’indagine): una logica della credulità feudale (importanza del rango, della collocazione gerarchica, dai comuni medievali alle realtà cortigiane); una logica del credito borghese (primato dell’economia, in senso sia finanziario sia del commercio delle passioni, nell’Europa premoderna), una logica dell’incredibile contemporaneo (atomizzazione del simbolico, continua rinegoziazione e rivoluzione dei poli discorsivo/immaginativi).
L’elenco degli autori e dei testi affrontati per comprendere ciò che di volta in volta ha significato trasformarsi artatamente in un altro è ampio e abbraccia più tradizioni, più letterature europee: si va dai furti d’identità nel Decameron all’epidemia truffaldina dei lestofanti quattro-cinquecenteschi (Bertoldo e compagni, i “sommersi” dalla storia poi “salvati” da Camporesi), dalla drammaturgia imposturale dei picari (a partire dalla Vida di Lazarillo) alla dissimulazione cortigiana (da Baldassar Castiglione all’Otello scespiriano).
Quindi, mentre la società occidentale slitta verso l’ordine borghese e i rapporti sono resi fluidi dalla circolazione dei capitali che sancisce lo status sociale di ciascuno, ecco il dramma tragicomico: il Tartuffe di Molière, l’Impostore di Goldoni.
Tuttavia la logica della credenza fattasi logica creditizia non impone solo un patto sociale ma anche una retorica “sincerista” che la supporti, una pratica discorsiva che nel secolo dei Lumi trova i suoi eccellenti sostenitori (Rousseau) e i suoi raffinatissimi detrattori (Diderot).
Con l’avvento dell’età moderna, l’esplosione dell’individualismo (e del suo contraltare: la massa) combinato con fenomeni di implosione identitaria rende il problema tanto sociale quanto esistenziale: come fare a essere sé stessi se neppure sappiamo chi siamo? Pirandello insegna: tanto vale diventare come agli altri piace, dare loro ciò che desiderano. “Io sono colei che mi si crede”, concede sfinita la signora Ponza, non certo una truffatrice, in Così è (se vi pare). La questione, attualissima, della fiducia interpersonale (ancora una volta: prima di tutto una costruzione sociale), viene indagata dal saggista attraverso i romanzi di Melville, Mann, Unamuno, Carrère, Cercas.
Nelle storie raccontate dagli ultimi tre autori citati, si noti, i protagonisti si consacrano alla missione di diventare il prodotto dell’altrui desiderio, cui scrupolosamente conformarsi: un santo (l’eroica impostura di San Manuel Bueno, Martír); un figlio, marito, padre esemplare (Jean-Claude Romand in L’Adversaire); una vittima della Storia (Enric Marco de El Impostor). Le conseguenze dell’atto di spacciarsi per qualcun altro si fanno peraltro, ormai, assolute, ultimative, investendo la teodicea (Unamuno), toccando dilemmi etici radicali (Carrère) o configurandosi come oltraggi a una collettività traumatizzata da drammi nazionali e universali (Cercas).
La fenomenologia rintracciata da Alfano delinea così, anche, una storia del concetto di identità, concetto quanto mai mutevole e soggetto a continue trasformazioni, se il mistificatore è un po’ Momus, un po’ Mercurio, un po’ Dioniso, ma il suo vero dio è in ultima istanza il mutaforma Proteo, che si tratti di self-fashioning (come nel caso del perfetto cortegiano), di diktat veritativi (la transparence di Rousseau), di test fiduciari (il confidence man melvilliano) o di allucinate manipolazioni come nel caso degli impostori novecenteschi.
Una storia del concetto di identità, si è detto, e di concerto una storia di comunità in preda a una vera e propria libido credendi. Da Ser Cepparello/San Ciappelletto ad Alexia/Adrien, per farsi riconoscere come un altro occorrono due cose: sostenere bene la parte, ma soprattutto soddisfare il sistema di attese dei beffati (i devoti borgognoni; i pompieri provenzali). It’s Only Make Believe, cantava uno dei numi del rock’n’roll, Conway Twitty, nel 1958. La faceva facile, ma per qualcuno mentire è stato il duro impegno di una vita – o del fine vita, come nei casi del “peggior uomo forse mai nato” di Boccaccio e della serial killer di Ducournau. Oh yes, I’m the Great Pretender, si vantavano sempre negli anni Cinquanta altri venerabili padri del rock, i Platters.