I teutoni non hanno anima; non l’ebbero altro che in prestito dai latini. E possono sempre tornare all’assalto disumano perché son troppi e quel che perdono si rifà presto: vite di bruti, macchine brute. Dopo duemil’anni che il danno nostro si ribadisce di vergogna è ora di farla finita. Serriamo la falange dell’anime, mettiamo sulla bilancia un milione di morti, ma l’immane polipaio tedesco sgrondi tutto il suo sangue biondiccio sulla terra oltraggiata; lo laceri a brani la volontà latina. Poter macellare ottanta milioni di esistenze e fare il mondo più bello ottanta milioni di volte! Ma ci mancano le macchine da gran carneficina e il cuore di belva che a loro non manca. Anche noi, i più offesi, chissà se sapremmo sgozzare quelli che segarono i polsi ai bambini perché cresciuti non tenessero un fucile. Ci vuole dunque di schiacciarli con la storia.
Questo virulento brano di propaganda bellicistica, datato 20 luglio 1915 e firmato Calandrino (pseudonimo di Fernando Agnoletti), è un testo letterario, o che perlomeno si lega a un’occasione letteraria. Figura infatti come introduzione all’Arciviaggio, raccolta di frammenti lirici del poeta contadino Giovanni Bellini pubblicata postuma (l’autore era morto in trincea, a Plava, una decina di giorni prima che Agnoletti vergasse le parole sopra riprodotte).
Il boccacciano nom de plume di Calandrino condensa alla perfezione tutto un giro d’orizzonte ideologico: il richiamo alla tradizione retorico-letteraria trecentesca, nella sua manifestazione popolar-viscerale, vale o vorrebbe valere come attestazione di un’“italianità” vera, terragna e animosa, miticamente atemporale.
Ma qui ci preme soprattutto evidenziare la ripresa di un argomento retorico antico come l’Occidente: il nemico è rappresentato come una creatura di animalesca crudeltà (i tedeschi, anzi i «teutoni» sono «macchine brute», «belve», le loro viscide carni formano un «immane polipaio»), capace di ogni male e di ogni perversione («quelli che segarono i polsi ai bambini»). Non hanno l’anima, dice Calandrino.
Una storia che si ripete sin dal mondo antico, quella dell’altro che non è come noi perché, innanzitutto, gli manca il cuore, gli difetta la coscienza. Un’idea tanto fondativa e radicata da occupare uno spazio culturale estesissimo, con echi puntuali anche al giorno d’oggi, nel recente immaginario fantasy: si pensi soltanto al Trono di Spade, ai Bruti che vivono al di là della Barriera (wildlings, come vengono definiti da chi vive al di qua, mentre loro si definiscono Free Folk…) e al di là del mare (i Dothraki), incombendo sui Sette Regni.
Era forse storicamente inevitabile che la retorica del barbaro alle porte, topos istitutivo dell’immaginario occidentale, ponesse radici tanto salde in una terra a lungo divisa in ben più di sette patrie, e la cui natura unitaria, tra municipalismi e regionalismi sempre risorgenti, neppure oggi appare fuori discussione. Una terra che, nel corso dei millenni, si è ripetutamente misurata con l’ombra minacciosa dell’Altro, e in particolare con due diverse, smisurate orde di “non civilizzati”: quella dei “teutoni”, incombenti da sopra, oltre la “Barriera” delle Alpi, e quella dei popoli levantini, in agguato al di là del mare.
Ed era altrettanto inevitabile che tale percorso plurisecolare incrociasse, a ogni tornante, dall’Antica Roma alle grandi guerre novecentesche, la letteratura.
Nell’agile ma denso volumetto L’Orlando Furioso, l’Italia (e i Turchi). Note su identità, alterità, conflitti (Quodlibet, Macerata 2020), Matteo Di Gesù, uno dei più competenti e raffinati studiosi di quella «nazione di carta», come lui stessa l’ha definita, che è l’Italia – «di carta» nel senso che le pagine dei letterati hanno concorso in modo decisivo a delinearla, ma anche in ragione della sua fragilità, del suo essere stata spesso considerata poco più che un’espressione geografica, un pittoresco tratteggio sulla carta d’Europa – affronta tali questioni in relazione a un decisivo snodo epocale: la turbolenta prima metà del Cinquecento.
L’Ariosto di Di Gesù non è quello ironico, allegro e scettico del De Sanctis, né quello leggero, rapido, avventuroso di Calvino, ma un poeta “militante”, abile nell’intessere spunti di attualità sul rovescio della trama di un poema che, scritto per divertire e celebrare la corte, al contempo gronda attualità, trasuda tutti gli umori più instabili ed emblematici di un’età di crisi.
In una delle rare digressioni politiche (perlomeno tra quelle esplicite) dell’Orlando furioso, l’invettiva contro i Turchi del canto xvii, Ariosto, osserva Di Gesù, riprende una tradizione fortemente codificata, a partire perlomeno dal Petrarca civile: quella del compianto sull’asservimento politico della patria, lacerata dalle guerre intestine e minacciata dall’avidità dei vicini. Nel farlo, il poeta ferrarese riattualizza il tema della crociata (il suo pensiero andava soprattutto a quella del 1333) e invoca un’impresa, condotta sotto comuni insegne cristiane, contro l’Impero ottomano, che miri alla “riconquista” di Gerusalemme e dell’altera Roma Costantinopoli.
Ora, come ricorda lo studioso palermitano, «negli anni in cui Ariosto componeva il suo capolavoro e ne licenziava la prima edizione, gli Ottomani non costituivano un pericolo incombente per l’Europa» (p. 73). Chiamare gli stati europei ad allearsi per la difesa e la liberazione delle terre consacrate alla cristianità significa dunque soprattutto cercare di compattare le forze interne (l’«Italia imbriaca» di tutti tristemente «ancella», ottava 76) e provare a dissuadere quelle esterne dal tornare ad assoggettare la penisola («Voi, gente ispana, e voi, gente di Francia, / volgete altrove, e voi, Svizzeri, il piede, / e voi, Tedeschi, a far piú degno acquisto; / che quanto qui cercate è giá di Cristo», ottava 74).
La tecnica retorica adottata per profilare il nemico d’oltremare è, ancora una volta, quella del vituperio, della disumanizzazione: le ottave ariostesche pullulano di «cani» e di «lupi», fremono di sdegno contro il «Turco immondo». Si riaffaccia insomma uno dei miti più cari al letterato italiano, quello del barbaro alle porte, dell’«Altro per eccellenza», come scrive la storica Marina Formica, bestiale e senz’anima (anche perché spregiatore dell’unico vero Dio).
Ariosto è qui sintonico con molte altre voci della sua epoca: come Di Gesù dimostra in un interessante excursus, i versi del canto xvii non divergono da altre rappresentazioni cinquecentesche dell’inciviltà e delle atrocità musulmane – fa tuttavia eccezione il coevo Commentario de le cose de’ Turchi di Paolo Giovio, 1532, un best seller d’epoca dove l’Altro figura non come un fantasma mostruoso, una belva da cui fuggire o da sopprimere, ma come un guerriero, un governante implacabile eppure capace.
Dietro questo richiamo alla difesa del proprio statuto di civiltà in opposizione all’altrui barbarie s’intravede, dunque, una millenaria vicenda culturale, variamente ripresa dagli scrittori, ma anche un tratto psico-sociale storicamente determinato, legato agli anni in cui il poema veniva composto, licenziato ed emendato.
Le ottave di Ariosto, infatti, esprimono tutta l’ansia per la cresciuta debolezza degli stati italiani, la paura per un giardino d’Europa stretto nella morsa di vicini incomparabilmente più coesi e potenti, lo smarrimento per il tramonto dell’orizzonte umanistico. C’è, insomma, lo sgomento per il tracollo di una civiltà assediata in primis dalla pochezza delle élites cortigiane e cittadine, dalla decadenza dei costumi (la fine dei mitizzati ideali cavallereschi), da un epocale cambio di paradigma tecnologico (l’avvento delle inumane armi da fuoco). E se l’inumana barbarie della «nazione turca», questo il quesito implicito, ci rinviasse come in uno specchio la nostra immagine? In fondo, i signori italiani sono i primi a convocare da oltralpe, pagandoli profumatamente, mercenari senz’anima, «lupi arrabbiati» e famelici.
E sono ancora loro, quando si tratta di provare a rimediare, a importare altri lupi, «di più ingorde brame», in una micidiale escalation di «tedesca rabbia», per dirla con un sintagma petrarchesco ricollocato ad arte, da Ludovico, nel canto xxxiii, e che ancora implicitamente risuona secoli dopo, nel brano di Calandrino citato in apertura.
Ariosto, osserva Di Gesù, «sembra dare voce a un inconscio politico collettivo», per quanto lo svolga, perlomeno quando viene in superficie, «ricorrendo alle forme, ai modi, alle retoriche e ai modelli previsti dagli statuti letterari della poesia civile del Rinascimento» (p. 81). La ripresa in chiave attualizzante della materia carolingia, il risentito richiamo morale alla cultura cortese, l’ossessione turca come spazio simbolico di alterità costituiscono dunque ben più di un seducente sfondo ideale-fantastico, prospettando un discorso identitario che non concerne solo il canto xvii, ma l’intero poema e, al limite, un dato di lunghissima durata della nostra cultura.
La letteratura può essere, e anzi spesso è stata, anche questo: una cortina d’imagerie, un paravento di carta drizzato per denunciare, magari dissimulando e/o esorcizzando, inquietudini e paure epocali, meccanismi d’identificazione e proiezione basati sulla costruzione di un’alterità negativa. Lo stesso Trono di Spade, certo con la sensibilità democratico-progressista d’oggi, lo dimostra. L’errore in cui non cadere è quello di astrarre tali meccanismi, appiattendoli su una prospettiva ciclica, mistificante in senso esoterico o essoterico. Occorre sentirli rintoccare, certo, di epoca in epoca, ascoltare l’eco di lunga durata del loro congegnarsi nel testo, senza però mai silenziare il contesto, ricordando – scriveva lo stesso Di Gesù nel citato Una nazione di carta – che quello «della tradizione e della selezione della memoria collettiva non è un discorso metastorico, neutro e assoluto, ma piuttosto storicamente e materialisticamente determinato, parziale e conflittuale».