Sotto la denominazione di Modernismo si identifica un movimento di difficile inquadramento e definizione, al punto che gli studiosi di letteratura e i manuali italiani, da sempre conservatori e tradizionalisti, faticano ancora a utilizzare questo marchio per catalogare gli autori e le opere che a esso pertengono.
Si tratta di una categoria che comprende sia poeti sia prosatori, caratterizzati da un comune sentire letterario e da una certa affinità di pensiero e di stile, benché non vi sia un manifesto ufficiale di questa tendenza, né un esplicito accordo tra i vari esponenti, i quali spesso non si conoscono, né si mettono d’accordo tra di loro, ma sono semplicemente simili interpreti di un tempo di crisi come l’inizio del Novecento; ecco perché non è propriamente corretto parlare del Modernismo come di un movimento.
Legittimo, invece, risulta utilizzare questo paradigma intendendolo come un’etichetta forgiata a posteriori dalla critica e dalla teoria letterarie da applicare alle personalità della letteratura occidentale, al fine di livellarle e accomunarle senza snaturarne il significato.
Molto si è prodigato un ristretto gruppo di accademici, capitanato da Romano Luperini e Massimiliano Tortora, per permettere in Italia l’adozione, tanto tra gli studiosi, quanto tra gli studenti, della nozione di Modernismo, come dimostrano i loro primi interventi sparsi, i loro convegni e, infine, le loro raccolte organiche1.
Il nome di questa prassi letteraria deriva dal termine inglese Modernism, con cui un gruppo di poeti anglofoni, negli anni Dieci – Venti del ventesimo secolo, ha tentato di gettare le basi teoriche del proprio fare lirico, rimanendo però tale categoria di uso esclusivo del canone anglosassone2, mentre ora urge una sua estensione antonomastica. Il Modernismo, infatti, riguarda l’Europa intera, e si sviluppa dai primissimi anni del Novecento sino agli anni Quaranta, avendo l’esperienza anglofona il merito nella scelta del nome, ma non nel primato temporale.
Tra gli esponenti principali, sul versante della poesia vi sono l’americano Ezra Pound e l’inglese Thomas Stearns Eliot, il francese Paul Valéry, il tedesco Rainer Maria Rilke e gli italiani Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale e, in parte, Umberto Saba, mentre sul versante della prosa vi sono il francese Marcel Proust, il tedesco Thomas Mann, l’austriaco Robert Musil, l’inglese Virginia Woolf, l’irlandese James Joyce e gli italiani Luigi Pirandello, Italo Svevo e, in parte, Carlo Emilio Gadda.
In Italia, il Modernismo è incorniciato da due grandi fasi letterarie: si tratta del decadentismo, o più precisamente delle avanguardie, che mostrano tutti i sintomi dei conflitti bellici globali e lo antecedono, e del filone dell’impegno, più precisamente del neorealismo e della poesia civile, che deprecano la guerra e tentano di “rifare l’uomo”, e lo postcedono. È, tuttavia, necessario ricordare che, trattandosi di mere etichette, risulta impossibile datare un inizio e una fine dei vari movimenti, così come non considerare le interazioni e le intersezioni tra di loro.
Inoltre, doveroso è rammentare che in Italia, eccezion fatta per le esperienze isolate del ritorno all’ordine e dell’Italie magique, in parallelo al Modernismo scorrono soltanto le tendenze della lirica pura, che dall’orfismo conducono all’ermetismo.
Più ardua, infine, emerge la posizione dell’egemone rivista Solaria e di autori come Alberto Moravia e Federigo Tozzi, idealmente ascrivibili a essa, dato che indubbia è l’influenza europeista e modernista nei loro confronti.
L’utilità dell’introduzione della categoria del Modernismo riposa, poi, su due fattori. Il primo è mera praticità catalogatoria, poiché, dati i loro comuni intenti, gli autori modernisti devono essere radunati, permettendo ciò una più facile assimilazione didattica, una maggior comprensione tra gli studiosi, nonché un’agevole sincresi tra la letteratura italiana e quelle europee.
Il secondo è improrogabile necessità esegetica, poiché gli esponenti di questo orientamento, in particolare i poeti, sono a lungo, dalla storiografia e così dalla manualistica, travalicati nel gruppo degli ermetici, con i quali poco o nulla condividono3, a partire dal celebre saggio di Francesco Flora, che li pone tutti sullo stesso livello lirico e li accusa di una poesia oscura, elitaria e difficile4.
2. Giova, a questo punto, proporre alcune costanti della poesia modernista e impiegarle per sondare e spiegare temi e stili degli autori italiani di spicco di questa tendenza europea.
Anzitutto, si riscontra una vocazione tardosimbolista: i poeti modernisti proseguono ancora, per certi aspetti, la poesia del simbolismo, utilizzando un linguaggio misterioso e difficile, a volte criptico e condensato in poche e complesse parole, giocate spesso sui sensi, sull’evocazione e sul suono; procedono per nessi alogici e analogici, cioè privi di un senso comune e intuibili solo per accostamenti e somiglianze; propongono i temi delle proprie poesie impostandoli sull’indagine di sé e del mondo e sulla ricerca del significato di ogni cosa, quasi la poesia fosse un modo di esplorare sé stessi e la realtà e di trovare in ciò verità nascoste nel profondo, valide per tutti, universali.
Questi poeti, poi, avanzano una dialettica tra crisi e speranza, poiché il Modernismo da un lato è condanna dell’epoca di crisi che è il Novecento, è denuncia del male del mondo e dell’esistenza, è continuo tormento e sofferenza, è terrore di morte, ma dall’altro è fiducia in uno spiraglio di bene e salvezza, è sogno, desiderio che la situazione migliori per sé e per la realtà, è attaccamento al ricordo e alla vita.
Ad esempio, la poetica di Montale gioca sul contrasto tra «male di vivere», ossia disagio esistenziale dell’uomo, prigioniero di una realtà senza senso, in crisi, disorientato e frustrato, privo di punti di riferimento, e desiderio di essere liberato, istanza di speranza da parte dell’esterno, attesa di un fantasma salvifico, fiducia in una rigenerazione futura. Ancora, le poesie di Allegria di naufragi di Ungaretti presentano una situazione di pena e strazio, rappresentata dalla distruzione dell’uomo e del mondo a causa della Prima guerra mondiale, compensata però dalla speranza di tornare allo stato puro delle origini, dalla ricerca di una terra promessa, dalla memoria di un ideale luogo felice.
I modernisti applicano, inoltre, una dialettica tra tradizione e innovazione, poiché sono tradizionalisti – amano il ritorno all’antico, la tradizione, l’ordine, conoscono i grandi poeti del passato, da quelli classici a quelli moderni, così citano i loro testi e usano i loro stili e concetti – ma sono anche innovatori, amano provare temi e stili nuovi, l’innovazione, il caos, sperimentano tecniche mai provate in poesia, impiegano versi liberi e sciolti e parlano di temi attuali e insoliti.
Ad esempio, Ungaretti scrive intere liriche senza utilizzare la punteggiatura, lasciando spazi bianchi e riducendo i versi a una sola parola, in modo innovativo, ma ne scrive altre in strofi di perfetti endecasillabi, il verso tradizionale della poesia italiana, recuperando anche le normali figure di suono. Ancora, Montale alterna facilmente le strofe e i versi tradizionali al verso libero e sciolto dell’innovazione, oppure adotta toni pacati e colloquiali, quasi da ragionamento, inusuali in poesia, per farli scontrare con parole elevate e difficili, tipiche della poesia più alta.
Una parte della lirica modernista adopera, infine, il cosiddetto correlativo oggettivo, che si verifica quando i poeti descrivono pensieri astratti o emozioni interiori, che solo l’autore vede e sente, non raccontando i propri sentimenti, ma attraverso immagini oggettive, esterne, capibili da tutti, come oggetti, animali, paesaggi.
Ad esempio, Montale, per raccontare il «male di vivere», ricorre all’immagine del muro non scavalcabile, del meriggio arido e rovente, della rete che si stringe, della crisalide imprigionata nel bozzolo, mentre per raccontare il desiderio di essere liberato, adopera l’immagine del varco nella muraglia, della frescura portata dal tramonto, del buco nelle maglie della rete, del bozzolo di crisalide che si schiude in farfalla.
3. Non mancano le costanti anche nel versante della prosa modernista, le quali permettono altresì di esplicitare forme e contenuti degli autori italiani appartenenti a questa tendenza europea. Anzitutto, si riscontra una propensione, quasi totalizzante, per l’adozione della forma-romanzo5 quale unico genere letterario in grado di raccontare una storia articolata e difficile, che necessita di uno sviluppo lento e permette all’autore di esprimere la propria tesi. Ciò non significa, ovviamente, che non vi siano novelle, racconti e persino opere di teatro ascrivibili alla prassi del Modernismo, ma che, certamente, la via privilegiata degli autori rimane quella del romanzo, praticata pressoché da tutti i prosatori.
I modernisti, poi, su influenza dello psicologo e filosofo austriaco Sigmund Freud, avanzano una grande attenzione all’inconscio, nel senso che gli scrittori si occupano delle azioni e dei comportamenti dei personaggi intendendoli come conseguenza di conflitti interni alla psiche umana, dei quali hanno poca consapevolezza e poco controllo. Gli autori danno quindi grande spazio al mondo interiore dei propri eroi, raccontandone i pensieri, le fantasie, i ricordi, i sensi di colpa, rivelando a volte che costoro mentono a sé stessi, perché non sono coscienti delle proprie azioni o non le padroneggiano.
Ad esempio, Svevo elabora per l’omonimo protagonista de La coscienza di Zeno dei meccanismi di difesa, ossia degli autoinganni, completamente inconsci, che lo aiutano a vivere più serenamente, come accade quando Zeno deve presenziare al funerale del cognato, ma finisce per seguire il corteo errato: egli non se ne rende conto, perché è la sua coscienza a guidarlo e a manifestare che, in realtà, lui odia il cognato e non vuole partecipare al cordoglio.
I prosatori modernisti, inoltre, su influenza del filosofo francese Henri Bergson, applicano l’idea di una percezione soggettiva del tempo, per la quale il passare degli istanti non è qualcosa di oggettivo, cioè uguale per tutti, bensì di soggettivo, cioè valido solo in relazione a ogni singola persona: l’estensione del tempo viene infatti percepita in modo diverso da ciascuno, e perciò dura più o meno a seconda di come una persona lo vive. Il tempo dei romanzi allora è allungato o accorciato in base a quanto l’autore sia interessato a dare importanza o meno a quella situazione: ci si ferma molto su piccoli dettagli, sui pensieri del personaggio, sul ritorno dei ricordi, mentre interi eventi vengono omessi; si velocizzano alcuni momenti e si passa da un anno all’altro della storia in poche righe di libro.
Ad esempio, Svevo espone le vicende di Zeno non dall’inizio alla fine, ma frantumando la storia in vari ricordi, radunati in base al tema (l’incapacità di smettere di fumare, il rapporto conflittuale con il padre, il matrimonio infelice…), così quello del racconto risulta un tempo misto, che fluttua in avanti e all’indietro, peraltro dilatandosi su alcuni eventi e comprimendosi su altri, per poi tornare al momento presente in cui Zeno ricorda gli eventi medesimi.
Una parte dei narratori, su influenza dello psicologo e filosofo americano William James – che crede che l’attività psichica delle persone sia un flusso di sensazioni, le quali si susseguono senza interruzioni e si compenetrano disordinatamente l’una sull’altra –, adopera la tecnica del monologo interiore, dando voce alla coscienza dei propri personaggi senza filtro alcuno, riportando i loro pensieri nel disordine con cui si affacciano alla mente, con o senza i verbi introduttivi, ma sempre in discorso diretto e facendo loro fare riferimento a sé stessi alla prima persona, in un flusso continuo.
Ad esempio, Svevo non racconta ai lettori i pensieri che frullano nella testa di Zeno, ma lascia che sia Zeno a esprimere ad alta voce ciò che medita soltanto silenziosamente nella sua mente.
Ancora, gli scrittori del Modernismo, su influenza dello scienziato tedesco Albert Einstein, latore della teoria della relatività, per la quale alcuni dati fondamentali (come spazio e tempo) non possono essere considerati con imparzialità, per quello che sono davvero, ma cambiano in base a come li si guarda, risultando inafferrabile la loro verità, filtrata necessariamente da chi li concepisce e perciò falsata, inseriscono nei loro testi dei momenti rivelatori, cioè istanti in cui il tempo della narrazione si ferma su di un’esperienza accidentale, in sé priva di valore, che acquista, agli occhi del personaggio, un rilievo eccezionale, poiché rivela una verità profonda, fa capire il senso delle cose, evoca una serie di ricordi che si ricollegano al presente e lo spiegano. Perciò i personaggi, durante questi attimi, comprendono meglio la propria situazione o condizione, arrivando alla verità e riuscendo così a porsi oltre al relativismo, che, normalmente, permetterebbe loro di capire sé stessi e la realtà solo in modo falso o parziale.
Ad esempio, Pirandello fa spesso accadere dei momenti rilevatori ai suoi protagonisti mentre si guardano riflessi in qualcosa, come una targa, uno specchio, un finestrino; fuori da sé, si rendono conto di come sono davvero, togliendosi le tante, diverse maschere che solitamente indossano di propria volontà o che la società impone loro di indossare.
Ciò che forse più rappresenta il romanzo modernista è, infine, l’impiego di protagonisti ai margini della vita, poiché il Novecento è l’epoca della crisi per eccellenza, perciò i personaggi stessi sono in crisi, hanno perso il fondamento, vivono al limite della realtà, sono anti-eroi malati, pazzi, incapaci, falliti, inetti, indecisi e bugiardi con sé stessi e gli altri. Benché gli sconfitti e i brutti entrino nella letteratura con la Scapigliatura e il Naturalismo-Verismo, e gli incunaboli di ciò si trovino già nel Romanticismo, dove subentrano i poveri e gli umili, tuttavia nell’Ottocento tali rappresentazioni infelici sono giustificate dal contesto sociale e storico, dall’esterno insomma; invece, a partire dal Modernismo, sono i fattori interni delle persone che si scatenano e condizionano la loro miserevole realtà.
Ad esempio, Pirandello fa in modo che il protagonista del suo Uno, nessuno e centomila, Vitangelo Moscarda, sia creduto da tutti impazzito, quando in realtà è lucidissimo e ha compreso che, nella vita, la pazzia è necessaria come valvola di sfogo e l’unico sano è chi ha capito che siamo tutti pazzi.
Ancora, il protagonista dell’altro capolavoro pirandelliano, Il fu Mattia Pascal, scappato da una vita insoddisfacente grazie alla notizia della sua finta morte, quando vuole tornare alla vecchia esistenza non viene riconosciuto, afferrando che nella realtà ci sono solo maschere e una vera identità è impossibile.
Ancor più, i primi attori dei romanzi di Svevo vengono categorizzati come inetti, nel senso che sono degli sconfitti che si condannano da soli, cause del proprio male, incapaci di vincere nella vita (salvo Zeno che, conclusa la propria cronistoria sotto il segno dell’inettitudine, si accorge che, in fondo, inetto non è).
Note
1. Si vedano almeno i saggi di L. Somigli, G. Baldi, M. Tortora e R. Luperini al numero 63 (2011) della rivista «Allegoria», nonché il volume Sul Modernismo italiano, a cura di R. Luperini e M. Tortora, Liguori, Napoli 2012.
2. Tra i tanti testi disponibili in varie lingue, due capisaldi rimangono Modernism. A Guide to European Literature 1890-1930, a cura di M. Bradbury e J. W. McFarlane, Pelican, London 1976 e Modernismo/Modernismi. Dall’avanguardia storica agli anni Trenta e oltre, a cura di G. Cianci, Principato, Milano 1991.
3. Quella dell’ermetismo è, infatti, una lirica intesa quale mezzo di conoscenza metafisica dell’essenza del reale, basata sull’assenza di sé e sull’attesa dell’assoluto, dove la poesia diventa atematica e pura musica dell’anima, come ben chiarito da G. Langella, Poesia come ontologia, Studium, Roma 1997.
4. Si tratta di F. Flora, Poesia ermetica, Laterza, Bari 1936 e 19422.
5. Gran parte di queste considerazioni, già note ai tempi, ma dall’autore canonizzate in Italia, si devono a G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Garzanti, Milano 1971.