150 milligrammi

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C’è stato un tempo in cui il cinema italiano ha vissuto una coraggiosa stagione d’impegno civile, che ha prodotto una serie d’importanti film di denuncia sociale. Ora ci restano solo i documentari. Ma altrove, per esempio in Francia, non è così.

Era il periodo degli anni ‘60 e ’70, di opere come Mani sulla città (1963) e Il caso Mattei (1972) di Francesco Rosi, di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e TodoModo (1976) di Elio Petri. Purtroppo sono tempi lontani, travolti da decenni di un edonismo cinematografico in perenne Vacanza di Natale, o ripiegato in un intimismo individualista o su ricerche estetiche di maniera, che spesso si esauriscono nella pura superficie dell’immagine.
Oggi il cinema sociale italiano sembra confinato nel ristretto recinto dei documentari, quasi completamente espulso dal grande circuito, come un corpo estraneo che non deve turbare la progressiva assuefazione allo spensierato intrattenimento del pubblico. Gli spettatori, allevati da trent’anni di televisione connotata da una devastante ideologia del disimpegno, sembrano ormai diventati insofferenti al cinema cosiddetto “impegnato” e schiavi di serie TV, che li incatenano al piccolo schermo in una nuova forma di dipendenza scopica.
Documentari come Mare chiuso (2012) di Andrea Segre o Fuocoammare (2016) di Gianfranco Rosi, non solo restano casi isolati, ma sono già condannati a una distribuzione in sala marginale e a una fruizione elitaria. Dobbiamo guardare oltre confine per trovare esempi importanti di cinema sociale contemporaneo, per ricordarci che la settima arte può essere anche uno straordinario strumento per scuotere le coscienze e per sollevare questioni etiche. Per nostra fortuna Ken Loach, i fratelli Dardenne e qualche altro autore, pochi per la verità, continuano a realizzare opere che denunciano le ingiustizie e le distorsioni della società postindustriale e del capitalismo finanziario.

Il nuovo film di Emmanuelle Bercot, 150 milligrammi, racconta la vera storia di una lotta solitaria e coraggiosa di un medico contro la lobby delle industrie farmaceutiche. Irène Frachon, pneumologa all’ospedale di Brest, sospetta ci sia un legame tra l’assunzione del farmaco anti obesità Mediator e la morte di alcuni suoi pazienti per valvulopatia cardiaca. Dopo una serie di ricerche sul campo, decide di chiedere all’Agenzia Francese del Farmaco il ritiro del Mediator dal mercato. Inizia così la battaglia di una donna sempre più sola, contro il potere finanziario e mediatico di un colosso industriale, sostenuto dalla complice e servile inettitudine delle istituzioni francesi di controllo. E proprio ciò che racconta il film di Emmanuelle Bercot è la storia del diritto alla salute e alla vita calpestato da interessi economici. Le morti di pazienti ignorate, vite umane che contano meno di fatturati e utili di bilancio, professori universitari pronti a vendersi al potere dell’industria farmaceutica, il tutto con il benestare di autorità di controllo, schierate dalla parte del più forte. Ma è proprio questa sproporzione di forze in campo che dà a Irène la tenacia per non arrendersi di fronte a mille difficoltà, a costo di essere derisa, umiliata e isolata. Per condurre la sua battaglia metterà in gioco tutto, il lavoro, la carriera, gli affetti, la famiglia, la sicurezza economica: un salto nel vuoto.

Il film è girato con scansione temporale da inchiesta giornalistica, che sottolinea il tono realistico, secco ed essenziale della messa in scena. La regia non cede alla tentazione di facili sentimentalismi, usando sempre un registro legato alla cronaca dei fatti, agli atti e alle evidenze scientifiche. Una scelta convincente, che finisce per portarci dalla parte della protagonista, non per semplice empatia emotiva, ma per convinzione razionale. Sposiamo la causa di Irène non per simpatia, ma perché il film ci fornisce tutti gli elementi di fatto per farlo. Più la storia avanza e più il quadro di una vicenda vergognosa si delinea in modo preciso. Non si può rimanere insensibili di fronte all’insopportabile ingiustizia di chi antepone l’interesse economico di un’azienda alla vita umana. Il farmaco Mediator, venduto in Francia per oltre 30 anni, è stato ritenuto responsabile di oltre 1000 decessi e ritirato dal mercato nel 2009. In Italia, lo stesso farmaco distribuito con il nome di Mediaxal, è stato ritirato nel 2003 e nel 2010 l’Agenzia Italiana del Farmaco ha disposto il divieto di utilizzo e di vendita di preparazioni contenenti il suo principio attivo benfluorex.

Per la cronaca, l’azienda produttrice del Mediator è la Servier. Il proprietario Jacques Servier, uno degli uomini più ricchi di Francia, nel 2009 è stato insignito dall’amico e suo ex avvocato Nicolas Sarkozy, allora Presidente, con la gran croce della Legione d’onore per i servigi resi alla Francia e l’impegno scientifico. Tutto chiaro, no?

150 milligrammi
Regia: Emmanuelle Bercot
Con: Sidse Babett Knudsen, Benoît Magimel, Charlotte Laemmel, Isabelle de Hertogh, Lara Neumann, Philippe Uchan, Patrick Ligardes
Durata: 128 min.
Produzione: Francia, 2016

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Alessio Turazza

Consulente nel settore cinema e home entertainment, collabora con diverse aziende del settore. Ha lavorato come marketing manager editoriale per Arnoldo Mondadori Editore, Medusa Film e Warner Bros.

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