1. Abbasso la Linea lombarda
Prendiamo spunto da una curiosa invettiva antilumbard del poeta e filologo settentrionale Flavio Santi, il quale ha il merito di aver tentato, sia pure in maniera provocatoria, una critica della critica capace di inglobare le istanze più basse e terrene dell’industria culturale, che non sono mai indifferenti o neutrali e spesso giocano un ruolo determinante nel successo di questo o quello scrittore.
«Ah, la linea lombarda» gorgheggerà nostalgico e ammirato più di un critico. La linea lombarda, questa nostra più salda della Madunina di folcloristica memoria. Poesia spiccia, oggettiva, scarna, dritta per la sua strada. Messa ormai nel frigobar delle antologie scolastiche e critiche. Shakerata all’occorrenza anche negli ultimi virgulti poetici lombardi. La sua solidità da nobile dama è tale, così forte e indiscutibile, che saprà senz’altro tollerare e perdonare questo umilissimo e meccanico tentativo di critica al suo blasone, non per destituirla (ci mancherebbe!) ma per scoprire qualche grammo di nobiltà anche in certi cugini più poveri, che non hanno avuto la fortuna: a) di avere un Luciano Anceschi (che, ricordiamolo, è stato il curatore dell’antologia Linea Lombarda del ’52, e sommo teorizzatore del ‘movimento’); b) di abitare a Milano o in riva al lago (la natura della linea lombarda è all’inizio addirittura più lacustre che urbana); c) di avere le amicizie giuste tra i critici (si sa che per entrare in un qualsiasi canone ci vuole più di un santo in cielo e più di un professore all’università)1.
La poesia è anche un marchio (la stessa versificazione è riconducibile a un marchio di fabbrica, una etichetta di poeticità) e prima di essere propriamente interpretata deve arrivare sotto gli occhi di un soggetto attivo e giudicante, intriso cioè di pregiudizi che lo mettano in condizione di leggere. Tra i pregiudizi più diffusi troviamo le etichette, ovvero quei nomi (di movimento, di stile, di ideologia, di appartenenza storico-geografica e/o di tutte queste cose messe insieme) capaci di designare un testo, un’opera, un autore, una famiglia. Una legittima analisi delle etichette dovrebbe dunque mettere in evidenza l’efficacia (contingente e storica) dei nomi prescelti, dei criteri fondanti, dei motivi del successo o dell’insuccesso ecc.
Cosa sarebbe la poesia italiana senza la linea lombarda? E sarà poi vero che la linea lombarda trova nel sostegno del suo inventore Luciano Anceschi il motivo principale del suo successo? Forse dovremmo cercare all’interno della formulazione, e non solo al suo esterno, nel potere editoriale e nel sostegno mediatico a disposizione del critico, i criteri della sua efficacia. E rilevare dunque le qualità dell’etichetta stessa: la sua geometricità (di contro a molte altre formulazioni assai più fumose), la brevità, la precisione e la decisione che sottostanno al modo di antologizzare (un canone di pochi autori emblematici, cui molti altri se ne aggiungeranno solo in seguito e ad opera di altri critici), la tempestività nel rispondere ad un bisogno di identità culturale da parte di quel nord lombardo che si candida alla elaborazione della civiltà capitalista del boom economico. La stessa oggettività raziocinante che fonda la linea lombarda sembra parlarci, in parte, di questo.
2. Poeti meridionali
Le linee, i movimenti dipendono dalla loro capacità di farsi tradizione, di incarnarsi cioè in altre esperienze, di lasciare un’eredità. Anche per questo la linea lombarda è tanto feconda. Perché sa rinnovarsi eppure rimanere riconoscibile in altri testi, altri poeti che – più o meno furbescamente – sanno collocarsi e creare quindi nel lettore quel necessario pregiudizio che occorre alla comprensione. Non si logora con l’uso, per adesso.
La poesia meridionale, invece, è davvero scomparsa dall’orizzonte? Semmai è scomparso l’aggettivo, inopportuno e per alcuni addirittura pericoloso, in un’epoca di ritorno violento ai miti del sangue e del suolo. Ma i poeti ci sono. Tutti presenti, in misura variabile (e con l’esclusione di Lorenzo Calogero) nelle antologie più importanti (Mengaldo, Sanguineti, Fortini). All’interno però di altre categorie, linee, movimenti; tutti espressamente nordici, specialmente nell’individuazione delle ascendenze, delle parentele, come già rimproverava Bodini a Anceschi e Antonelli nel 1953, colpevoli di aver occultato Gaeta e Di Giacomo a tutto vantaggio di Gozzano, togliendo così la terra sotto i piedi ai meridionali come lui, cresciuti ad altre latitudini ma anche su altri libri, su altre “musiche”, su un altro stile2. Come dire: i poeti ci sono, i testi funzionano, ma per capirli davvero, per leggerli occorre possedere i pregiudizi opportuni, le giuste informazioni che solo un efficace paratesto può dare (a un pubblico di massa, verrebbe da aggiungere).
L’esempio della non fondamentale antologia di Cucchi e Giovanardi è lampante. Vi compaiono i nostri poeti meridionali – in particolare Scotellaro, Cattafi e Calogero – quasi fossero ospiti indesiderati, o, meglio, desiderati solo per non mettere in imbarazzo i commensali, che forse avrebbero notato la loro assenza. L’antologia, infatti, è impostata cronologicamente a partire dai cosiddetti maestri, Luzi, Sereni, Caproni e Bertolucci, poi scende giù per li rami ai Poeti di Officina, e alla Quarta generazione, dove Cattafi e Scotellaro convivono con Orelli, Erba, Risi, Spaziani, Bellintani e Merini. Non è un caso che nella categoria degli appartati compaiano il siciliano Lucio Piccolo e il calabrese Lorenzo Calogero (assai meritoriamente recuperato alla dimenticanza). Ma si può davvero pensare di leggere questi poeti dopo quei maestri? O forse si ripete qui il caso additato da Bodini, di un occultamento delle radici?
Vediamo alcuni dei poeti in questione. Tra i più anziani troviamo Alfonso Gatto e Leonardo Sinisgalli (nati nel 1909). La geografia di Gatto è assai mobile: Salerno, Milano, Firenze e Roma sono le sue città, tutte importanti, decisive per la formazione del poeta e, soprattutto, per la sua affermazione. Salerno è il Sud, l’orizzonte costante della sua poesia, dei suoi temi e del suo stile; Firenze è la città dell’ermetismo storico (di cui Gatto è il più solido e autorevole rappresentante: Isola, del 1932, «è il testo decisivo – con le due prime raccolte di Quasimodo – per la costituzione di una grammatica ermetica», sostiene Mengaldo); Roma è un buon luogo dove lavorare e coltivare amicizie artistiche; Milano è la Mondadori, che dal 1961 in avanti prende in custodia la sua opera poetica (una custodia assai trascurata ultimamente, se è vero che l’Oscar curato dallo stesso autore e introdotto stupendamente da Baldacci non viene e non verrà ristampato). Gatto oggi non conosce molti continuatori. Ha estimatori tra i critici, che anche di recente lo hanno celebrato in un convegno, ma non sembra venir preso a modello dagli scrittori nostrani.
Sinisgalli nasce a Montemurro, in provincia di Potenza. Trascorre la sua vita a Roma, dove ha modo di instaurare fecondi rapporti letterari (specialmente con Libero De Libero e con il mondo del surrealismo pittorico romano). Il sostrato meridionale della sua poesia, all’incrocio tra una «poetica dell’essenzialità analogica» e una «materia di memorie infantili e adolescenziali campite sullo sfondo senza storia né tempo della terra natale», è stato ben descritto da Mengaldo3. Fortini ha sottolineato con efficacia l’eredità lasciata dal poeta lucano: «Come Quasimodo, Sinisgalli ha insegnato a tutta una generazione di autori in prosa e in versi, soprattutto del Sud, quali Rocco Scotellaro, Vittorio Bodini, Bartolo Cattafi. Ma ha lasciato il suo segno anche nell’ambito lombardo, su Luciano Erba o Giovanni Raboni»4. Tra i contemporanei Sinisgalli pare non funzionare molto. Si segnala, in ambito critico, l’edizione di Vidi le muse, commentata da Aymone per l’editore Avagliano. Anche per Sinisgalli va segnalata la presenza nel catalogo mondadoriano (dal 1943, e con una prefazione di Gianfranco Contini) con un’edizione tascabile del 1974 poi scomparsa dalla circolazione. Per quel che riguarda gli eredi, è difficile andare al di là della generazione di Bodini e Cattafi.
Il siciliano messinese (nato nel 1922) Bartolo Cattafi, da alcuni considerato esponente di spicco della linea lombarda, è certamente il più fortunato per la diffusione editoriale (l’Oscar Mondadori è stato di recente riproposto) e per l’eredità poetica, finita per adesso nelle buone mani di Elisa Biagini e dell’ancor più giovane Paolo Maccari.
Bodini (Bari 1920) è poeta radicalmente salentino, ma fiorentino e madrileno di esperienza e formazione. Milano è stata la patria editoriale, con Scheiwiller e Mondadori (prima nello «Specchio», 1962, poi negli Oscar, 1972, con una introduzione di Oreste Macrì: un libro quest’ultimo presto scomparso dalla circolazione, riproposto in una meritoria ristampa anastatica dell’editore Congedo e oggi sostituito da una bella e poco diffusa edizione di Besa, a cura dello stesso Macrì). Bodini è il versante illuminista dell’analogismo ermetico-surrealista meridionale. Per questo è anche il divulgatore più lucido e autorevole del surrealismo spagnolo (l’antologia dei poeti della generazione del ’27 risale al 1963, edizioni Einaudi). Se la critica ha dimostrato affetto e attenzione (specie negli anni ottanta), la poesia dei successori non sembra attecchire nella splendida opera di Bodini.
Una nota, infine, sul curioso destino editoriale di Salvatore Toma (plausibile erede della lucidità bodiniana). Pubblicato in vita, tra il 1970 e il 1983, da minime case editrici del centro-sud, il poeta salentino (Maglie, 1951-1987) viene riproposto da Einaudi nel 1999 grazie alla testarda insistenza della curatrice Maria Corti. Ma l’autorevolezza della sede editoriale e della curatrice non sembrano smuovere il canone consolidato dei poeti e delle loro dinastie.
Insomma, i poeti ci sono, sono in parte presenti al mercato editoriale, al pubblico. Un po’ meno alla critica (almeno a quella critica ‘mediatrice’ tra accademia e mercato), alla scuola (l’editoria scolastica) e all’accademia, appunto. Forse manca una prospettiva comune capace di coglierne il legame e che metta il lettore in grado di operare collegamenti e confronti. Manca una critica che sappia costruire un credibile pregiudizio intorno ai poeti. Manca una interpretazione valida ed efficace non sul piano scientifico-accademico quanto su quello sociale: una chiave di lettura che sappia tentare il lettore senza tradire gli autori, i quali, ormai defunti, non potrebbero protestare.
3. Ermetismo meridionale
È stato Donato Valli a riprendere la formulazione di Anceschi per far risaltare la linea lombarda «oggettiva» contro una meridionale, musicale. Quest’ultima verrebbe a coincidere con il cosiddetto ermetismo meridionale di Gatto, Sinisgalli, De Libero e Bodini, ben quattro dei sei poeti menzionati da Santi5.
Viene da domandarsi il motivo del parziale insuccesso di questa formula, ermetismo meridionale, probabilmente sovrastata da quella limitante e vagamente oppressiva elaborata negli ultimi anni da Mengaldo, il quale, sulle tracce del simbolismo analizzato da Spitzer, ha sottoposto a vivisezione i capisaldi del movimento per individuare una koinè linguistica (di una lingua specializzata per la poesia). Una versione fredda, dunque, di un ermetismo tutto linguistico che ha rimpiazzato le versioni calde e fin troppo vaghe delle antologie scolastiche e della vulgata precedente. A discapito dell’idea di ermetismo di Valli: una idea culturale di civiltà prima che di lingua poetica.
Di sicuro, la formulazione restrittiva di Mengaldo priva l’etichetta di alcune caratteristiche fondamentali: aumentando la chiarezza semantica, il termine ermetismo perde in evocatività e completezza, tanto da aver bisogno di aggettivi capaci di qualificarlo (categoriale o storico, fiorentino o meridionale, da declinare poi nel surrealismo, a sua volta francese o spagnolo…). Lo stesso vale per l’ermetismo meridionale, appunto, che oltre tutto va a toccare un argomento ancora tabù della cultura italiana, la quale non ha fatto davvero i conti con la supposta meridionalità tante volte evocata.
Meridionale rischia di apparire di volta in volta limitativo e sostanzialmente negativo, a causa di un mal riposto senso di colpa: per non aver compiuto l’effettiva riunificazione delle due Italie; per aver mancato l’obiettivo dello sviluppo e non aver spazzato via ogni residuo ancestrale di civiltà contadina, di cui ci si vergogna ormai come di un parente povero e malvestito; per non aver saputo esprimere un eventuale modello di sviluppo autonomo e alternativo.
4. Una poesia meridiana
A proposito dell’ermetismo di area meridionale (Sinisgalli, Gatto, Bodini) Donato Valli ha scritto: «Un senso di musica e del colore, una estrema rarefazione delle sensazioni, quasi per sottrarsi all’urto d’una realtà spesso amara, una naturale propensione all’idillio che veste di sogno le asprezze della storia, l’aristocrazia di un sentimento che viene da lontano, dalle radici della civiltà occidentale e che si è affinato fino alla trasparenza per troppa solitudine, sono tratti comuni caratteristici della loro cultura e della loro poesia. Si hanno, insomma, una certa tendenza alla destoricizzazione del dato fisico in favore della sua sublimazione sentimentale, fantastica, una particolare attenzione ai contenuti puri, non inquinati da utilitarismo e pragmatismo, un antimaterialismo che prelude all’appropriazione del simbolo, un sentimento dell’ineffabile che si manifesta non di rado per le vie dell’evento o della magia (…)»6.
Luigi Baldacci nel 1972 ha lasciato un’altra traccia indelebile nella critica della poesia che qui interessa, andando a individuare alla base della poesia di Gatto – il primo degli ermetici propriamente detti – una «maturazione a capire la propria storia e la propria gente. C’è una sua aderenza, non mai smentita, a un’anagrafe di uomo del Sud, che resta tale pur attraverso mille peregrinazioni. Ma non vogliamo – e sarebbe pericolosissimo – fare di Gatto un mito: richiamarlo alle leggi del sangue e della terra. Sarebbe pura agiografia o pura retorica. Quel che conta, ai fini del registro poetico, è che Gatto rispecchia quella realtà meridionale chiudendosi, ieri e oggi, ad ogni suggestione tecnologica. (…) La terra di Gatto, quella terra che è l’unica presenza reale della sua poesia, terra folta di morti, di sepolti, non ha presidio di divinità: né pagana né cristiana. Gatto è un poeta naturalista, alla maniera di Verga. La natura s’impasta con l’uomo; l’uomo verifica in sé le leggi della natura». Infine, conclude il suo discorso Baldacci, Gatto può essere accusato per questo di essere reazionario: «E Gatto è reazionario nel senso appunto che la sua poesia non è consolatoria, non propone una rivincita, una via d’uscita, una prassi per un domani migliore». Ancora: «una poesia senza storia e fuori dalla storia»7.
Da qui prendiamo le mosse per spingerci oltre nella costruzione d’un orizzonte comune accettabile. Il punto di partenza è il sud come sostrato antropologico, storico e ambientale, «unica presenza reale» della poesia di Gatto e di tutti poeti che stiamo tenendo in osservazione. È questa la scaturigine della chiusura alla suggestione tecnologica (sia tematica sia stilistica), dell’antimaterialismo, antipragmatismo e antiutilitarismo che sostanziano la destoricizzazione del dato fisico e, di conseguenza, il particolare analogismo e surrealismo stilistico dei poeti in questione.
È un sud, questo, in grado di consistere e resistere alla dispersione dei suoi poeti, e capace dunque di riemergere anche al di là degli effettivi contatti e delle discendenze. Capace dunque di tenere insieme, ad esempio, Calogero e Bodini, ma anche Gatto e Toma e, naturalmente, i consentanei Sinisgalli e De Libero. Un sud per il quale forse non basta più il logorato aggettivo «meridionale», e che potrebbe invece riconoscersi nel più cogente «meridiano» adottato da Franco Cassano nel suo libro Il pensiero meridiano, fondato proprio sul rifiuto di una meridionalità da definirsi esclusivamente per differenza dalla normalità del nord e sulla ricerca di una identità nuova, che sappia smettere di paragonarsi all’altro da sé per ritrovare e tutelare all’interno della sua storia e del suo paesaggio un modello culturale non-produttivistico8.
Alla base del ragionamento di Cassano c’è il pensiero di Albert Camus, riletto a partire dalla sua critica della storia («Man mano che le opere umane hanno finito col ricoprire a poco a poco gli spazi immensi nei quali il mondo sonnecchiava […], popolando i deserti, lottizzando le spiagge, raschiando persino il cielo con grandi tratti aerei […], il sentimento della storia ha a poco a poco sopraffatto nel cuore degli uomini il sentimento della natura»)9; la storia è la fonte della dismisura e del totalitarismo occidentali:
Quel sottrarre l’uomo alla fissità naturale, che era sembrato un modo per sottrarlo ad antiche soggezioni e per ampliarne le libertà, consegna invece inermi i popoli nelle mani delle élites e fa di essi cera da modellare secondo le forme del sogno. La critica dell’ideologia tedesca è in primo luogo critica dell’idea dell’infinita malleabilità dell’uomo, ricerca di materiali resistenti alla volontà di potenza, di un metro di misura che non sia quello dell’effettività e del successo10.
Il pensiero meridiano, ovvero il pensiero solare che affonda le radici nel Mediterraneo, è il possibile antidoto. La misura necessaria. La forza inattuale capace di fare attrito e rallentare la corsa, di portare alla rivolta senza rivoluzione e quindi di guardare al futuro senza perdere di vista il passato (preservando «la fedeltà del futuro alle radici»).
Al di là delle implicazioni politiche e critiche di Cassano, ci interessa vedere come ci siano poeti e testi in cui si incarna questo sud che ancora non si prostituisce né si rifugia nell’integralismo. Un sud che privilegia gli spazi pubblici (il mare innanzitutto) e sfugge così agli angusti confini del privato e del domestico (tipicamente lombardi e neoavanguardisti). E che non accetta la desacralizzazione del mondo, radicandosi nel sostrato mitico e magico della sua civiltà contadina (Bodini, Scotellaro).
Bodini è esemplare di questo atteggiamento, incapace com’è di accettare perfino la razionalizzazione del folclore operata da De Martino, capacissimo invece di assimilare senza mediazioni culturali la Spagna magica e popolare del suo soggiorno madrileno, dei suoi poeti surrealisti (pubblicati da Einaudi nel 1962).
Il sud di Bodini ha dato un giudizio alla storia (così come il poeta seppe al momento giusto dare il suo giudizio sull’imperante Ragione: «È l’anno dell’avvento della Ragione / Il cui trionfo ci costò tante sconfitte», La civiltà industriale, 25 maggio 1968):
Xanti-Yaca
[…]
Al tempo dell’altra guerra contadini e contrabbandieri
si mettevano foglie di Xanti-Yaca
sotto le ascelle
per cadere ammalati.
Le febbri artificiali, la malattia presunta
di cui tremavano e battevano i denti,
erano il loro giudizio
sui governi e la storia.
Così semplice,
che noi non l’avremmo fatto.
[…]
Come farò
Come farò
a diventare antico
almeno fino ai secoli in cui un demone
sveniva in ogni bianco giglio
e l’universo era già tutto scritto
in un rampante agreste mosaico?
Essere un angelo che dice
Dalla bocca Iesu Iesu in un dorato cartiglio
Al tempo delle pietre preziose che avvelenavano.
Lasciatemi uscire da questa vita,
non dalla vita, signor Cristo.
Vi sono anime fatte per domandare
e altre per rispondere:
la mia è una persiana verde con due occhi dietro,
la mia è un remo rosso tra i vivai di cozze
che il pescatore aggira sullo Ionio
lentamente immergendolo
in quell’azzurro che non sa mentire.11
Le stesse radici culturali ermetiche e l’accettazione del simbolismo europeo come civiltà e come koinè linguistica che ne è alle fondamenta sono la prima garanzia contro l’invadenza della comunicazione di massa (ed è questo un elemento parzialmente comune alla linea lombarda, che in questo caso si avvicina alla meridiana, contro la neoavanguardia).12
Il surrealismo va collocato in questa prospettiva. È vero che solo per un poeta come Rocco Scotellaro si può parlare di un surrealismo originario, non letterario ma radicato nei miti contadini cui il poeta biograficamente appartiene; lo stile analogico e la tematica magica sono nella sua poesia un’emergenza della civiltà senza storia che produce e richiede questa poesia13. Tuttavia, lo stesso surrealismo letterario assorbito per la via dell’ermetismo (quindi preferibilmente dalla Francia) o, nel caso di Bodini, direttamente dalla Spagna, trova la sua giustificazione principale in quelle stesse radici culturali14, divenendone allo stesso tempo mimesi e racconto.
Per via di un «analogismo più dissoluto e alogico» (Mengaldo), o attraverso un «automatismo musicale della rima» (Baldacci), il surrealismo dei poeti meridiani ha fondamento in uno spossessamento lirico del soggetto che può essere considerato a pieno titolo il loro «giudizio sulla storia». L’io viene spodestato e superato soprattutto in virtù del vincolo rimico-ritmico, capace di indurre una trance ipnotica nell’autore come nel lettore (è il caso soprattutto di Gatto e di Pagano, sia nelle poesie sia nelle traduzioni), ma anche per via di uno sperticato accostamento di immagini e di sensi.
Si tratta di uno spossessamento capace di garantire il soggetto dall’alienazione merceologica, che in qualche modo viene anticipata e prevenuta: la letteratura compie un primo spodestamento dell’io (per libera scelta e radicandosi in una tradizione) laddove l’alienazione avrebbe colpito con altra violenza. La letteratura è lo strumento che garantisce il recupero di un rapporto magico-mitico (antilluministico) con il reale (e con il sociale), ed è anche il luogo in cui prende corpo il racconto di un sud immobile e mortuario, apparentemente capace di resistere ad ogni lusinga.
Anche per questo, forse, l’ipotetica e aleatoria linea meridiana non ha saputo propagarsi. Probabilmente è rimasta sepolta sotto il crollo di quella civiltà che, già in via di estinzione, poteva almeno costituire un orizzonte materno e salvifico. Prostituta (privata dei suoi beni pubblici) oppure integralista (soggetta alle leggi arcaiche del sangue e del suolo da parte della pur globalizzata mafia), l’Italia meridionale forse ha davvero bisogno di un pensiero meridiano anche solo per capire e ricominciare a scrivere la sua poesia. A Salvatore Toma, poeta che appartenne ad una generazione successiva a quella di Bodini, non rimase che un canto ben più disperato:
Arriverà la vita,
arriverà,
palazzi città auto ferrovie
saranno dilaniati come antilopi.
Il leone che è in noi
ruggirà in maniera mai sentita
sbranando uomini e donne
bambini invecchiati
e vecchi arroganti
malati di dominio.
Arriverà la pace
il silenzio mosso
da un canto divino.
Ci sentiremo lo stomaco
svuotato di carni
non avremo bisogno di mangiare
respireremo vento
aria neve gelsi
il selvatico che è in noi
prevarrà.
La verità
arriverà15.
Note
1. Flavio Santi, Abbasso la «linea lombarda», «Trame di letteratura comparata», III, 5-6, 2003, pp. 385-87 (già in «Il domenicale», 11 gennaio 2003).
2. Vittorio Bodini, Quarant’anni di poesia, «L’esperienza poetica», I, 1, gennaio-marzo 1954, pp. 17-30
3. Nota critica in Poeti italiani del Novecento, a c. di Pier Vincenzo Mengaldo, Milano, Mondadori, 1978, p. 692.
4. Franco Fortini, I poeti del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1977, p. 63.
5. Donato Valli, La lingua di Rebora, in Id., Assaggi di poetica contemporanea, Cavallino di Lecce, Capone Editore, 1990, pp. 103-18, a p. 103, e, soprattutto, Id., Ermetismo e dintorni: la poesia dal 1920 al 1940, in Storia generale della letteratura italiana, diretta da N. Borsellino e W. Pedullà, vol. XI, Il Novecento. Le forme del realismo, Federico Motta Editore.
6. Valli, Ermetismo e dintorni cit., p. 339.
7. Luigi Baldacci, La poesia di Gatto, in Alfonso Gatto, Poesie (1929-1969), scelte dall’autore, introduzione di L. Baldacci, Milano, Mondadori, 1972.
8. Franco Cassano, Il pensiero meridiano, Roma-Bari, Laterza, 20018 (prima ed. 1996), p. 69.
9. Cassano, Il pensiero meridiano cit., p. 83.
10. Cassano, Il pensiero meridiano cit., p. 85.
11. Poesie tratte da Vittorio Bodini, Tutte le poesie, a cura di Oreste Macrì, Lecce, Besa, 1997.
12. Il caso di Bodini è leggermente diverso. Egli frequenta il linguaggio delle avanguardie storiche, ma solo come lingua del dolore e della sconfitta (semplicemente, non si illude più che la poesia possa essere un antidoto, quindi aggredisce se stesso e gli altri con una lingua più violenta).
13. Sull’argomento cfr. G.B. Bronzini, L’universo contadino e l’immaginario poetico di Rocco Scotellaro, Bari, Edizioni Dedalo, 1987, e la relativa recensione di Valli, Il «caso» Scotellaro, in Id., Assaggi di poetica cit., pp. 131-39.
14. Si contravviene qui ad una indicazione di Baldacci, il quale a proposito di Gatto ha parlato di una dimensione surrealista pura, senza delimitazioni di geografia culturale che non siano semplici delimitazioni di lingua: «La storia di relazioni entro la quale la poesia di Gatto è collocabile è – giova ripeterlo – quella di un surrealismo italiano; e vi si potrebbe includere De Libero che però, rispetto a Gatto, punta al barocco (…), o Bodini, con la sua fantasia folta e infarcita (…)», in La poesia di Gatto cit., p. 22.
15. Salvatore Toma, Agli indiani d’America, in Id., Canzoniere della morte, a cura di Maria Corti, Torino, Einaudi, 1999, pp. 50-51.