Nel 1964 Jean-Paul Sartre pubblica Les mots, una narrazione autobiografica della propria infanzia di lettore e di scrittore. Il libro, immediatamente tradotto in italiano da Luigi De Nardis con il titolo Le parole (Il Saggiatore, 1964), è diviso in due parti: Leggere e Scrivere, le due distinte azioni – “imposture”, le definisce lo stesso autore – attraverso le quali l’uomo tenta di prendere possesso del linguaggio, rimanendo allo stesso tempo, in qualche modo, suo prigioniero.
“Ho cominciato la mia vita – scrive Jean-Paul all’età di cinquantanove anni – come senza dubbio la terminerò: tra i libri”. E in mezzo ai libri comincia la passione per la letteratura di Sartre, fin da bambino intento a immergersi nelle storie, immedesimandosi nei personaggi e nei narratori fino al punto da avere terrore “dell’acqua, dei granchi e degli alberi” dopo la lettura dell’almanacco illustrato Hachette. Fino ad aver terrore dei libri stessi e, quindi, a maledire “i manigoldi che popolavano i loro racconti con queste atroci figure”.
“Ciononostante – afferma ancora Sartre – li imitavo”.
Certo, occorreva un’occasione. Per esempio, il tramontare del giorno: l’ombra sommergeva la stanza da pranzo, spingevo la mia piccola scrivania contro alla finestra, rinasceva l’angoscia, la docilità dei miei eroi, immancabilmente sublimi, misconosciuti e riabilitati, rivelava la loro inconsistenza; allora la cosa cominciava: un essere vertiginoso m’affascinava, invisibile; per vederlo bisognava descriverlo. Ultimavo rapidamente l’avventura in corso, portavo i miei personaggi in una regione del globo del tutto diversa, generalmente sottomarina o sotterranea, m’affrettavo ad esporli a nuovi pericoli: palombari o geologi improvvisati, essi trovavano la traccia dell’Essere, la seguivano e, all’improvviso, lo incontravano. Ciò che mi veniva allora sotto la penna – piovra dagli occhi di fuoco, crostaceo da venti tonnellate, ragno gigante e che parlava – ero io stesso, mostro infantile, era il mio tedio di vivere, la mia insipienza e la mia perversità. Non mi riconoscevo: appena partorita, l’immonda creatura si scagliava contro di me, contro i miei coraggiosi speleologi, temevo per la loro vita, il cuore mi partiva al galoppo, dimenticavo la mia mano, scrivendo le parole credevo di leggerle.
I libri letti – e più nello specifico quei libri che raccontano storie – sono la fonte della sua scrittura. È necessario trovare il momento e la situazione adatti, avere una scrivania, inchiostro e penna, della carta, la luce adeguata, e l’immaginazione già popolata da creature, scenari e personaggi straordinari, pronta a muovere la mano per costruire altri mondi, inventare altre storie. Fino a quando “scrivendo le parole – dice Sartre, – credevo di leggerle”. Durante la scrittura, dunque, avverrebbero alcuni fenomeni analoghi a quelli che si verificano durante la lettura, che, stando a quanto dice l’autore stesso nella prima parte del suo libro, potrebbero essere: l’abolizione di se stesso, l’identificazione totale coi personaggi, la trasfigurazione di sé nel narratore, e viceversa. Scrivere, come leggere, rappresenterebbe così – come sottolineato negli ultimi anni dagli studi sociologici e dalle neuroscienze – una sorta di simulazione, un’esperienza mediata, che avviene cioè attraverso la mediazione delle storie narrate.
Con la lettura, ci dice la ricerca scientifica, il corpo umano elabora schemi di storia, sviluppa capacità empatiche, acquisisce strumenti per dare un senso alla vita. Lo stesso, dunque, può avvenire con la scrittura, in maniera addirittura rafforzata, purché siano soddisfatte alcune condizioni che Sartre ha ben evidenziato nel suo resoconto autobiografico.
Intanto, deve trattarsi di scrittura narrativa. Nello specifico, il giovane Sartre legge e scrive romanzi di avventura. La scrittura, inoltre, è messa in moto da un processo imitativo, a partire da esempi e modelli dati: personaggi, ambienti, situazioni, schemi di storia conosciuti attraverso la lettura. La scrittura, infine, deve in qualche modo avvenire quasi da sé, scaturire di getto, in situazioni e in momenti ritenuti significativi. Non esiste un piano o un progetto di scrittura, poiché la condizione sufficiente e necessaria alla scrittura, in definitiva, è sentirsi scrittori. Il bambino Sartre gioca al gioco della letteratura e scrive come se fosse uno scrittore. Non cerca l’originalità, e neanche la pubblicazione, non si aspetta di essere valutato. «Scrivevo per scimmiottatura, per cerimonia, per fare la persona grande», dichiara con candore il filosofo. E con altrettanto candore ammette di scrivere soprattutto perché è il nipote di Charles Schweitzer, il padre di sua madre, l’adulto che in quel momento rappresenta il punto di riferimento più autorevole e significativo.
Non ambisce la pubblicazione, il giovanissimo romanziere, perché ciò che scrive è giù stato pubblicato in anticipo. È un plagiario, in fondo, e l’originale usato per la copia è la migliore garanzia della validità di quanto scritto.
Mi feci dare un quaderno, una bottiglia d’inchiostro violetto, intitolai, sulla copertina: «Quaderno per romanzi». Al primo che portai a termine diedi il titolo: «Per una farfalla». Uno scienziato, sua figlia, un giovane esploratore atletico risalivano il corso del rio delle Amazzoni alla ricerca di una preziosa farfalla. L’argomento, i personaggi, i particolari delle avventure, lo stesso titolo, erano stati presi da un fumetto pubblicato nel trimestre precedente. Questo plagio deliberato mi toglieva le ultime preoccupazioni: tutto era necessariamente vero, dato che io non inventavo nulla. Non ambivo essere pubblicato, ma avevo sistemato le cose in modo tale che mi avrebbero pubblicato in anticipo, e non scrivevo una riga che non avesse la garanzia del mio modello. Mi consideravo un copista? No. Ma un autore originale: ritoccavo, rinfrescavo; per esempio, avevo avuto cura di cambiare i nomi dei personaggi. Queste lievi alterazioni mi autorizzavano a confondere la memoria e l’immaginazione. Nuove e già bell’e scritte, le frasi si riformavano nella mia testa con l’implacabile sicurezza che si attribuisce all’ispirazione. Se l’autore ispirato, come comunemente si crede, è diverso da se stesso nel più profondo di sé, io ho conosciuto l’ispirazione tra i sette e gli otto anni.
Non mi lasciai mai completamente ingannare da questa «scrittura automatica». Ma il gioco mi piaceva anche per quello che era: figlio unico, potevo giocarci da solo. A tratti fermavo la mano, fingevo di esitare per sentirmi, fronte accigliata, sguardo allucinato, uno scrittore.
Leggere con attenzione, andando per un periodo di tempo ad abitare nell’opera, nel suo mondo narrato, non importa se più o meno realistico, più o meno finzionale; creare le condizioni di contesto – gli strumenti, il tempo, l’atmosfera, un adulto di riferimento da imitare – e poi agire, fare ciò farebbe uno scrittore o una scrittrice: scrivere.
Questo, in estrema sintesi, è il processo alle fondamenta de La pagina che non c’era.
Una scrittura fondata essenzialmente sull’empatia, l’immedesimazione, l’adozione di un punto di vista e sull’introiezione di regole implicite al mondo narrato.
Una scrittura in qualche modo automatica, poiché fondata sull’azione non pianificata.
Una scrittura che nel suo farsi produce scrittori e scrittrici, e che attribuisce ai docenti un ruolo e una responsabilità fuori dall’ordinario. Figure adulte di riferimento, gli insegnanti hanno qui il compito fondamentale di stimolare senza inibire, di accogliere senza far pagare il conto, di valutare senza giudicare. Inutile nasconderlo: dipende tutto da loro. Ed è la migliore conferma della validità di un metodo didattico.