Qualche settimana fa è capitato un fatto “increscioso”. Un sedicente giornalista ha dedicato una pagina del suo quotidiano alla denuncia dell’indottrinamento politico che staremmo tentando con un nostro testo per le scuole medie. Con abile perizia liquidatoria, l’articolista sfoglia il testo, si ferma su un approfondimento di quattro pagine, ne estrapola un paragrafo di dieci righe, si concentra sul titolino e grida allo scandalo.
La cosa ci lascerebbe indifferenti, se non fosse che nel pezzo si dà conto anche del malumore che serpeggerebbe, a causa nostra, nella classe docente di quella provincia italiana (e chissà poi perché di quella…). Proviamo a indagare tramite i nostri rappresentanti di zona, ma nessuna lamentela sembra aver turbato la didattica del territorio. Tutto tace.
Anzi no. Perché l’articolo, postato in rete, suscita l’immediata proliferazione di commenti da parte degli affezionati lettori del quotidiano, i quali si spingono fino a dove sono soliti, cioè al complotto giudaico. In casa editrice si diffonde un certo allarme, per il timore che il fenomeno possa ingigantirsi. Personalmente sono in apprensione: conosco bene il testo e so che le insinuazioni sono infondate, ma come dimostrarlo? E a chi? E dove?
In effetti, quando quella sera esco dalla casa editrice per tornare a casa mi accorgo di avere un fare un po’ guardingo: come se, camminando per la strada, mi aspettassi di incontrare qualcuno intenzionato a chiedermi conto dei fatti.
Ovviamente, nulla accade: a nessuna delle persone che frequento è noto l’accaduto. Se provo a parlarne io, a nessuno sembra che la cosa interessi poi tanto (“ah, ma va?!”, “ma pensa!”). L’apprensione mi passa. Fino al giorno dopo, quando, acceso il computer, mi ritrovo oggetto di mail e di post, lamentele e insulti.
Dedico l’intera giornata, in accordo con il nostro ufficio stampa, a rispondere alle une e agli altri, con esiti diversi. Con chi ha postato insulti sui social è impossibile ogni dialogo. Non solo non prova nemmeno ad argomentare, ma replica ai chiarimenti con un crescendo di violenza verbale che da solitario sfogo si fa appello all’assembramento squadristico. Abbandono ogni velleità di civile colloquio. Spengo il computer e sono di nuovo preoccupato. Penso che questa volta ne parleranno i TG, si organizzeranno sit-in di protesta e forse si arriverà allo scontro fisico… e invece, nulla. La cosa sembra continuare a non interessare a nessuno.
Ogni tanto riaccendo il computer, e ascolto il vociare della rete. Spengo, ed è silenzio. Passano ancora un paio di giorni, e tutto sembra di nuovo sopito. Finché un collega di un altro ufficio mi ferma sulle scale e mi chiede: “Ma che avete combinato, in redazione?”.
“Perché?” chiedo.
“Il comunicato?!”.
“Quale comunicato?”.
“Ti mando il link!”.
Arriva, ci clicco su e mi ritrovo alla pagina di un altro giornale locale che racconta di come una nota formazione neofascista sia venuta sotto la nostra sede ad attaccare manifesti di protesta. Corro fuori, ma non c’è nulla. Rientro in sede e mando una mail a tutti, per chiedere chi ne sappia qualcosa.
Nessuno.
Eppure l’articolo parla chiaro, con tanto di foto che mostra i manifesti appesi. Mistero. Finché a qualcuno non viene il sospetto e va a chiedere alla portinaia del palazzo. L’arcano si scioglie: la donna, infatti, la mattina molto presto, come di consueto, esce a pulire androne e marciapiedi; vede i manifesti; li classifica per ciò che sono, li stacca e li accantona per la raccolta della carta.
Così, mentre in rete il post ridà la stura all’universo parallelo intriso di complotti, congiure e crociate, la realtà prosegue imperturbata il suo quieto cammino di concretezza, ignorando le sciocchezze e restituendo al pattume il vociare indistinto di quell’umanità virtuale.
Il 18 dicembre a Milano presenteremo la rivista nell’ambito dell’incontro pubblico Sarà vero?.