Sono un dirigente scolastico e attualmente svolgo anche un incarico di reggenza in una scuola superiore di secondo grado, dove ho scoperto che il giorno di San Valentino viene festeggiato dagli studenti con una modalità particolare.
I ragazzi (ma si accodano a loro anche molti adulti che lavorano a scuola) inseriscono in scatole, realizzate come urne per votazioni, biglietti ai quali affidano l’espressione di affetti e ringraziamenti: talora i destinatari sono identificati, talora facilmente identificabili, come anche le motivazioni dei messaggi. La forma è rigorosamente anonima: del tutto assenti, però, i messaggi aggressivi o insultanti, che l’anonimato e la pratica dei social potrebbero “legittimare”. I ragazzi utilizzano, invece, questa opportunità per esprimere sentimenti positivi che durante la vita scolastica ordinaria rimangono pudicamente nascosti, con qualche puntata di necessaria goliardia: immancabile «Preside, 60 e sto!», comprensibile auspicio di un Pasquino maturando.
Tra i biglietti indirizzati al dirigente scolastico quest’anno c’era questo: «Grazie, preside, per avermi dato un’altra possibilità». Non ho riconosciuto l’identità dell’autore del messaggio e in quale forma concreta si sia espressa questa “altra possibilità”. Avverto, però, con compiacimento che uno studente ringrazi per aver ricevuto un’altra opportunità, di cui forse non si riteneva meritevole (da qui il ringraziamento) e nutro l’auspicio che questo studente si senta oggi più responsabile del buon uso di tale opportunità, di cui finalmente coglie il pregio (da qui, ancora, il ringraziamento).
Sono attive, sempre nella mia scuola di reggenza, anche sezioni carcerarie, frequentate da studenti un po’ particolari: i detenuti, che in fondo sono ex studenti, molti dei quali non hanno saputo utilizzare al meglio le opportunità che hanno avuto (forse non ne hanno colto il valore?) o che forse avrebbero meritato un’altra possibilità che non gli è stata offerta. Questi studenti frequentano oggi la scuola perché hanno compreso che solo l’istruzione è l’altra possibilità, anzi l’unica possibilità che meritano veramente e che oggi stanno dimostrando con i fatti di saper apprezzare. Nel contesto del carcere la relazione con i docenti e con gli altri studenti è uno degli strumenti più efficaci di riscoperta della dignità personale e di realizzazione di quella rieducazione di cui parla la Costituzione come finalità ultima della pena (art. 27). Le aule in cui gli studenti svolgono le loro attività sono ex celle che l’impegno e la dedizione dei docenti trasformano quotidianamente in ambienti di apprendimento, perché questi studenti lo meritano. Lo merita la loro determinazione, il loro desiderio di riconquistare e di riaffermare la dignità di persone che devono restituire qualcosa alla comunità a cui finalmente hanno deciso di appartenere veramente, contribuendo secondo le proprie capacità.
Si merita davvero quello che si apprezza e di cui si riconoscono valore e senso. Far sentire meritevole uno studente significa che è stata costruita una relazione capace di far riconoscere allo studente che il proprio valore di persona poggia sul nesso che tiene insieme diritti, doveri e responsabilità, senza accondiscendenza o paternalismo. Perché, ovviamente, tutti gli studenti meritano un’altra possibilità, e poi anche un’altra, e un’altra ancora, se quelle precedenti non sono state efficaci, ma la differenza la fa il fatto che essi siano o divengano consapevoli del valore di queste possibilità.
Forse queste riflessioni di preside un po’ compiaciuto non sono adatte a inserirsi armonicamente nel dibattito che la nuova denominazione del nostro Ministero ha destato dopo l’insediamento dell’attuale Governo. Mi chiedo cosa c’entrino il mondo interiore che il biglietto di San Valentino lascia intravedere, o il detenuto che decide di riscoprire la sua dignità personale frequentando la scuola, con le affermazioni che si leggono in giro, determinate dalle solite contrapposizioni da dibattificio («la scuola del merito è la scuola della selezione sociale, è la scuola che lascia indietro i meno bravi. Bisogna superare il Sessantotto e la scuola della massificazione! Nessuno rimanga indietro»).
Francamente chi lavora ogni giorno con i ragazzi si confronta con altre domande: come faccio a far comprendere a questo studente quanto vale? a fargli capire che ce la può fare? Si tratta di domande forse meno interessanti per i produttori di opinioni, ma essenziali per chi quotidianamente trova il senso della propria attività nell’impegno a restituire la luce che merita allo studente che esperienze, contesti e situazioni hanno reso uno specchio opaco.
Tutti sappiamo che l’art. 34 della nostra carta costituzionale afferma che «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Ma, come noto, l’art. 34 prosegue con quella mirabile sintesi di idealità e pragmatismo che muoveva i padri costituenti, precisando: «la Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso». Il dovere è quello, quindi, di realizzare il diritto dei capaci e dei meritevoli e tale dovere incombe sulla Repubblica, per cui un Ministero dell’istruzione e del merito non può che presentarsi con intenzioni tanto condivisibili quanto scontate, vale a dire quelle di rendere effettivo il diritto per lo studente capace e meritevole, benché privo di mezzi, di contribuire secondo le proprie capacità al progresso della collettività. Nel riconoscimento delle capacità dello studente e nell’interesse della collettività.
Perché l’istruzione è sempre un’altra possibilità.