Due scambi con i micologi
La prima volta che ho incontrato Matteo Florio Furno ero seduto in un bar, mentre boccheggiavo in un afoso pomeriggio d’estate. Torino era svuotata dei suoi abitanti, che con ogni probabilità si addensavano sonnacchiosi in qualche spiaggia in giro per il mondo. La città, in compenso, era colma di una spessa coltre di umidità che si incollava alla pelle, rendendo difficoltoso persino battere le palpebre. In compagnia di Caterina, che in quel momento lavorava per l’Orto botanico di Torino, stavo attendendo due sconosciuti sfidanti per la partita di padel che avevo in programma, una parentesi piuttosto infruttuosa della mia attività sportiva con una racchetta in mano. Dopo pochi minuti ho visto spuntare due giovani ragazzi sulla trentina che si sono presentati come Matteo e Marina, entrambi micologi ed entrambi ricercatori per la Micoteca di Torino.
Ora, al di là dell’interesse che avevo al tempo per il gioco del padel e della mia voglia di competizione in un torrido pomeriggio torinese, la mia attenzione fu attratta immediatamente da queste due informazioni sorprendenti: micologi e Micoteca. Devo ammettere che nella mia vita non mi sarei mai aspettato di giocare a padel, figuriamoci di farlo contro due micologi della Micotheca Universitatis Taurinensis, detta Mut, ma questo è il bello di buttarsi in attività fuori dal proprio tracciato. Ancora prima di iniziare il match e di vedere come sarebbe andato a finire, il mio desiderio era quello di saperne di più su quella che sembrava a tutti gli effetti un surreale archivio di funghi: si trattava di una notizia fantastica.
La mia curiosità, però, dovette attendere. Le incombenze quotidiane spesso tendono a mettersi di traverso e a rallentare il raggiungimento dei nostri desideri. Qualche mese dopo, in un novembre con temperature decisamente più rigide rispetto a quell’afoso giorno d’estate, mi recai all’Orto botanico di Torino, dove mi ero dato appuntamento con Matteo e dove si trova la Micoteca. Onestamente, prima che Caterina me ne parlasse non conoscevo la Mut, questo gioiellino della città in cui abito e di cui oggi vado orgoglioso. Il cielo era di un blu acceso, spazzato dalla nevicata che pochi giorni prima aveva imbiancato i tetti e le vie della città. L’erba e le foglie degli alberi sempreverdi erano luminose e si mischiavano al luccichio del fiume. Ero entrato in un piccolo paradiso terrestre, minuziosamente curato e mantenuto con maestria. Non era la prima volta che visitavo l’Orto botanico, personalmente lo ritengo un piccolo spazio di quiete e condivisione con le piante e gli animali che lo abitano. Credo che la parola “visitare” in questo senso sia più che mai appropriata, perché quando entro in luoghi come questo mi sento un ospite in visita a qualcuno: qui uno degli amici a cui sono più affezionato è una nodosa e bitorzoluta Sophora japonica situata vicino all’ingresso, mentre il vero proprietario – o almeno pensa di esserlo e guai a contraddirlo – è Cornelio, una coriacea e bellicosa oca che nei suoi venticinque lunghi anni di vita ha rifiutato una compagna ed è sopravvissuta a una violentissima grandinata che ha persino forato le serre e abbattuto diverse piante e uccelli. Oggi, però, gironzola serenamente come un pastore nei suoi prati ed è meglio non darle troppa confidenza.
Dopo un breve vagabondaggio nell’Orto, sono entrato nel laboratorio di micologia, dove mi stava aspettando Matteo, questa volta in veste di tecnico della ricerca e dottorando. Era l’ora di fare sul serio e buttarsi a capofitto nell’esplorazione di un mondo fungino di cui ignoravo quasi del tutto l’esistenza.
Mut, immergersi in un mondo di ife
La Mut, o Micotheca Universitatis Taurinensis, è nata formalmente nel 1999 come collezione di funghi del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università degli Studi di Torino, ma affonda le sue radici già negli anni Sessanta, e nel tempo si è affermata anche come strumento di valorizzazione delle biotecnologie, ossia l’uso di organismi viventi per creare beni e servizi. Oggi è un laboratorio con strumentazioni avanzate in cui vengono studiate, analizzate e conservate un’enorme varietà di specie fungine grazie all’impegno e alle competenze di professori, tecnici, ricercatori, e laureandi. Una delle professoresse che ho avuto la fortuna di conoscere è Giovanna Cristina Varese, esperta in tassonomia, ecologia e biotecnologie dei funghi e responsabile scientifica della Mut. Cristina e Matteo mi hanno subito coinvolto grazie alla loro sconfinata passione per questi singolari esseri viventi di cui ignoriamo ancora moltissimo e mi hanno guidato in un pomeriggio di scoperte sorprendenti. Ma prima di iniziare il percorso penso sia necessario capire di chi stiamo parlando.
Quando pensiamo a un fungo solitamente immaginiamo i tanto ricercati porcini che tra settembre e ottobre spuntano sulle tavole dei ristoranti e delle case, oppure ai più comuni champignon che abitualmente occupano gli scaffali dei supermercati. In ogni caso, la nostra immaginazione va a quella parte del fungo visibile, che si manifesta in maniera quasi spudorata e con indole esibizionista facendo capolino dal terreno o da tronchi umidi ricoperti di muschio. In realtà questa è solo il cosiddetto “corpo fruttifero” dell’essere vivente, ossia la parte dedita alla produzione di spore per la riproduzione, qualcosa di simile a ciò che avviene con i frutti e i semi per le piante. Ma il fungo è molto più di questo, come spesso accade. Innanzitutto, i funghi – o miceti – appartengono a un regno a sé stante e sono organismi eucarioti, eterotrofi, formati da una o più cellule. Spiegato così può sembrare estremamente didattico e forse anche un po’ noioso, per questo lascerei spazio alla descrizione di qualcuno che dedica la propria vita a questi organismi viventi:
Alcuni funghi, come i lieviti che fanno fermentare lo zucchero nell’alcol e aumentare di volume il pane, sono costituiti da una sola cellula che si moltiplica per gemmazione. La maggior parte, invece, forma reticoli di più cellule detti ife, sottili strutture filamentose che si diramano, si fondono e si aggrovigliano tra loro a formare la filigrana anarchica del micelio. Il micelio andrebbe pensato più come un processo che come una cosa in sé, la rappresentazione concreta della caratteristica principale dei funghi: la tendenza a esplorare e a proliferare. L’acqua e i nutrienti scorrono negli ecosistemi dei reticoli miceliari. Il micelio di alcune specie è elettricamente eccitabile e conduce onde di attività elettrica lungo le ife, in maniera analoga a quanto accade agli impulsi elettrici nelle cellule nervose degli animali. Le ife formano anche strutture più specializzate, come i corpi fruttiferi, che nascono dall’unione di questi filamenti e sono capaci di grandi prodezze oltre all’espulsione delle spore. (Sheldrake, 2020)
Ecco che siamo tornati ai nostri corpi fruttiferi, a quella parte che siamo soliti scorgere del fungo, ma che allo stesso tempo è solo una minima sezione della sua essenza. Quelle di “ife” e “micelio”, invece, sono nozioni che faremo bene a tenere a mente (si può vedere uno schema dell’anatomia di un fungo pluricellulare qui). In particolare il micelio è una struttura, o meglio, un processo sorprendente: è contemporaneamente una singola entità reticolare e una collettività di ife in continua trasformazione, inoltre consente al fungo di nutrirsi e di riconoscere sé stesso o i suoi simili, ha una qualche memoria direzionale e percepisce l’ambiente circostante. Insomma, il micelio è qualcosa di sbalorditivo in grado di mettere in discussione alcune delle rigide categorie del pensiero umano. Ma i funghi, in questo senso, hanno la capacità di svicolare da scrupolosi incasellamenti. E Matteo me lo dimostra subito.
Una proliferazione di domande
Nella Mut i miceti studiati sembrano organismi iperattivi, restii a farsi catalogare in posizioni fisse e definitive all’interno di una gabbia vetusta – probabilmente è così che la considererebbe un fungo – come quella del sistema tassonomico di Linneo. Nel laboratorio, infatti, vengono scoperte continuamente nuove specie, mentre individui sono riclassificati in ordini diversi grazie a nuove scoperte. Fino agli anni Ottanta, l’identificazione di un fungo avveniva solo attraverso l’analisi morfologica: si osservavano le sue strutture riproduttive, la forma e le caratteristiche visibili; tutte informazioni fondamentali per la sua classificazione. Oggi, invece, l’avvento della tecnologia molecolare permette di analizzare il materiale nucleare del campione studiato e affiancare questo procedimento a quello tradizionale, ottenendo risultati più accurati. Ma non finisce qui: ai miceti sembrerebbe non essere sufficiente questa continua sfuggevolezza, questa tensione irrefrenabile al cambiamento. Per questi esseri viventi lo stesso concetto di “specie” sarebbe restrittivo, un vestito adatto a piante e animali, ma non a loro. Le differenze all’interno della stessa specie, infatti, possono essere enormi, al punto che nel 2013 il micologo Nicholas Money ha proposto di abbandonare la nozione di specie fungina (Sheldrake, 2020). A questo proposito oggi si preferirebbe parlare di “ceppo”, quando ci si riferisce ai funghi, un concetto più vicino a quello di “individuo”. Ma persino quest’ultima osservazione verrebbe subito ingurgitata e decomposta da funghi simbionti e micorrizici, che travalicano la definizione stessa di individuo, a noi umani tanto cara.
Sono entrato da pochi minuti all’interno della Micoteca e mi trovo già sopraffatto da una rete di informazioni in espansione. Mi sembra di esserne quasi sopraffatto, ma la volontà di esplorare l’ambiente che mi circonda mi spinge ad andare sempre un po’ più avanti e in profondità. Come l’ifa di un fungo mi addentro in questo mondo, fatto di stanze asettiche, camici bianchi e strumentazioni in movimento, e come un micelio tento di connettere tutte le sue parti, di stringere contatti con persone e informazioni fino ad allora sconosciute. Mi domando come si debbano sentire tutti questi funghi osservati in ogni loro movimento all’interno di capsule di Petri e beute coniche. Mi chiedo come si debba sentire Matteo, e tutti gli altri che lavorano in questo scrigno fungino. In quale percentuale hanno assimilato la “personalità” di questi meravigliosi esseri viventi. Anche loro sono in continua trasformazione? Anche loro sono completamente tesi all’esplorazione?
(continua)
Nota dell’autore
Matteo Florio Furno è Dottorando in Scienze Biologiche e Biotecnologie Applicate e Tecnico della ricerca dell’Università degli Studi di Torino.
Giovanna Cristina Varese è Professoressa ordinaria dell’Università degli Studi di Torino in Botanica Sistematica e Responsabile Scientifica della Micotheca Universitatis Taurinensis.
Bibliografia
M. Sheldrake, L’ordine nascosto. La vita segreta dei funghi, trad. it. A Taroni e S. Travagli, Marsilio Editori, Venezia 2020.