Recenti polemiche accademiche
Questa trasformazione del Nostro in un eroe pop non deve però ingannarci: gli studiosi non hanno smesso di “rimuginarci” sopra e – incredibile a dirsi – anche di polemizzare aspramente sulla sua natura. È ancora forte nel mondo accademico l’eco della disputa (senza esclusione di colpi…) dei primi anni Duemila tra l’archeologo Andrea Carandini e lo storico Augusto Fraschetti: per il primo, infatti – anche alla luce dei suoi scavi sul Palatino – Romolo avrebbe potuto (pur dubbiosamente) essere un uomo in carne e ossa, per il secondo era invece sicuramente un mito costruito artificialmente dai Romani d’epoca successiva. Chi scrive ha letto e apprezzato gli studi di entrambi, ed è convinto che forse la questione così posta abbia poco senso, e che – in fondo – abbiano ragione tutti e due. Perché il mito può contenere una realtà solida, duratura e – a suo – modo “storica” a prescindere dalla storicità o meno di ciò che racconta: la figura di Romolo, insomma (che a mio avviso non è mai esistito, come Minosse o Teseo, per intenderci), ha tanto condizionato la storia di Roma e dell’Occidente che la sua corporeità è davvero l’ultimo dei problemi.
Il recente volume di Mario Lentano
Questa mia idea (peraltro neppure troppo originale) si è ulteriormente rafforzata leggendo il recentissimo libro scritto da Mario Lentano intitolato Romolo. La leggenda del fondatore (Carocci editore, pp. 168, € 14,00). È infatti una vera e propria biografia, costruita con un sapiente uso delle fonti, nella quale – pur senza dare alcuna sponda all’idea della storicità del personaggio – si afferma perentoriamente che il fondatore è davvero «il primo romano», perché nella sua figura si trovano «le chiavi per accedere al volto più autentico di una civiltà e della sua plurisecolare avventura nel mondo».
Romolo dal Tevere al trono
Lentano ci fa assistere – con l’aiuto di Ennio, Livio, Virgilio, Ovidio, Plutarco, Dionigi di Alicarnasso ecc. – alla nascita dei due gemelli Romolo e Remo, alla loro salvezza “dalle acque” (come avvenne anche a Mosè!), alle amorevoli cure della Lupa (un animale o una prostituta?), fino alla loro maturità: se ne tratta nei capitoli Vicende di prescelti e Verso il futuro. Ovviamente, largo spazio è dato poi (nel capitolo Una mattina di aprile) al rituale fondativo di Roma del 21 aprile 753 a.C. e al fratricidio che vi è connesso: atto, quest’ultimo, da molti visto come prefigurazione delle future guerre civili che insanguinarono l’Urbe. Segue “l’invenzione” della città (nel capitolo chiamato appunto Inventare una città) da parte del primo re, l’ideazione cioè delle sue regole civili e religiose, e perfino di alcune delle sue istituzioni politiche più importanti come il senato. Il tutto fino al complesso racconto della morte/apoteosi di Romolo, avvolta già dalle fonti antiche in un ambiguo mistero (oltre che nella nebbia): ampio spazio vi è dedicato nel capitolo Epilogo in Campo Marzio.
Ersilia, la prima regina di Roma
Il merito dell’autore è quello di avere vagliato con chiarezza e completezza le fonti, e – a mio avviso – anche quello di avere dedicato alcune pagine a una figura solitamente un po’ dimenticata, cioè quella di Ersilia, moglie sabina di Romolo.
A questo proposito è bene partire da un passo di Tito Livio che Lentano commenta:
Mentre i Romani erano occupati in queste operazioni, l’esercito degli Antemnati, approfittando dell’occasione e dell’assenza di difensori, effettua una scorreria nel territorio romano. L’esercito romano, rapidamente condotto contro di loro, li sorprese mentre erano sparsi nella campagna; così i nemici al primo assalto e al primo grido di battaglia sono volti in fuga, la città viene presa. Trionfando Romolo per la duplice vittoria, la moglie Ersilia, cedendo alle insistenti suppliche delle rapite, lo prega di perdonare ai loro padri e di accoglierli nella cittadinanza romana: così lo stato poteva crescere con la concordia. Senza difficoltà fu esaudita. (Tito Livio, Ab Urbe condita, 1, 11, trad. L. Perelli).
Comprendiamo che Ersilia è una delle donne sposate con la forza da Romolo e dai suoi compagni, dopo quel mitico “ratto” che provocò non pochi conflitti con i popoli vicini di stirpe sabina. Ella però – al pari delle sue compagne – mostra un atteggiamento politicamente conciliante, teso a persuadere il marito a fondere la comunità latina con quella sabina di origine. Parla da regina – o almeno da First Lady – la Nostra, e non si riferisce alla sfera, domestica, familiare, bensì a quella politica, poiché – scrive Lentano – «fa balenare agli occhi del consorte il vantaggio in termini di potenza che Roma potrebbe ricavare dalla scelta di accogliere i nemici sconfitti e ammetterli all’interno della cittadinanza. Ersilia rileva dunque l’importanza egualmente politica della concordia, un valore che la storiografia latina pone ripetutamente alla base dell’iniziale sviluppo della città, sorta dalla mescolanza di componenti eterogenee che si sono saldate in un corpo civico compatto proprio grazie alla diffusa presenza di questa virtù» (p. 151).
L’analisi dei frammenti di una tragedia perduta di Ennio (Sabine) sembra ulteriormente accentuare il ruolo pubblico di Ersilia, attiva nell’associare il re sabino Tito Tazio al trono del marito. Pur senza il clamore e il pathos di una Lucrezia, il cui suicidio sarà prodromico alla nascita della Repubblica (509 a.C.), la sposa di Romolo assurge dunque agli onori di consigliera politica e diplomatica del primo re; il quale – come sappiamo dal racconto liviano – era tanto favorevole a costruire una comunità multietnica da avere già dato asilo ai fuggitivi dei villaggi vicini, incarnando – scrive Lentano – la «strutturale apertura all’integrazione dello straniero» propria del mondo romano. Ma di ciò ho già scritto su queste colonne, diversi anni fa.
Poco ci dicono le fonti sui due figli della coppia, Prima e Avilio. Sappiamo però che anche Ersilia, al pari del marito, subì un processo di deificazione (ne parla, tra gli altri, Ovidio, Metamorfosi, 14) trasformandosi in Hora, sposa celeste di Quirino. E divenne pure, in tempi assai più recenti, protagonista di un melodramma (non tra i più noti) di Pietro Metastasio, Romolo ed Ersilia (1765), il cui argomento la descrive come «figliuola di Curzio, principe degli Antemnati, per chiarezza di sangue, per virtù e per bellezza di gran lunga superiore ad ogn’altra». Lentano non ne accenna, ovviamente, perché il suo è un libro “serio”. Chi scrive, però, lo è un po’ meno e si diverte molto a osservare la rilettura arcadica (ancorché un po’ superficiale) del mondo antico. Et in Arcadia ego, insomma, per terminare con una frase famosa: Lentano preferisce invece restare sul Palatino…