Un oggetto artistico è qualcosa che piace? #2

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Tiziana Andina, docente di Filosofia teoretica all’Università di Torino, è una delle voci più interessanti nel panorama della recente riflessione italiana nel campo della filosofia dell’arte.

 

Sono rimasto colpito dalla sua opera Filosofie dell’arte. Da Hegel a Danto che fornisce un’introduzione chiara e ben scritta al dibattito in ambito estetico, ma non si limita a essere un’opera di ricostruzione storiografica. L’autrice, che ringrazio per la disponibilità, ha gentilmente accettato di rispondere ad alcune mie domande per La ricerca, dandomi così l’opportunità di scavare più a fondo circa il quesito che ho lanciato la settimana scorsa.

Come lei chiarisce fin dall’apertura del volume, il primo rompicapo per gli studiosi di filosofia dell’arte consiste nel mettersi d’accordo su cosa sia un’opera d’arte. Secondo alcuni autori, come ad esempio Kennick, non c’è, né può esserci teoria capace di risolvere l’enigma. Lei mostra invece un cauto ottimismo, vuole spiegarne le ragioni?

I teorici di ispirazione wittgensteiniana, tra i quali va senza dubbio annoverato anche William Kennick, sono generalmente scettici nei confronti delle possibilità euristiche della filosofia. Ritengo, viceversa, che il compito della filosofia consista proprio nell’elaborare teorie con l’obiettivo di chiarire, sotto il profilo concettuale, quegli aspetti problematici delle cose che la realtà di volta in volta ci presenta. L’arte del Novecento ha riproposto in modo pressante gli interrogativi che riguardano la definizione e l’ontologia delle opere d’arte. Tutto questo ha chiamato in causa anche il concetto di arte. Detto ciò, è altresì evidente che la filosofia ha in genere di mira, ove possibile, una conoscenza definitoria; in altre parole, una conoscenza in grado di fornire condizioni necessarie e sufficienti per l’elaborazione di una definizione. Nel caso dell’arte credo che le teorie che meglio riescono a misurarsi con un panorama diventato oggettivamente articolato e complesso siano le cosiddette “teorie a grappolo”; ossia quella famiglia di teorie che, pur non fornendo una definizione vera e propria, forniscono tuttavia una serie di orientamenti. In questo senso sostengo che, a voler semplificare, possiamo dire che un oggetto, per essere un’opera d’arte, deve esibire due tipi di proprietà: quelle semantiche e quelle relazionali, mentre non è necessario che esibisca proprietà estetiche.

 

La sintesi, mi rendo conto, può sembrare abbastanza oscura. In sostanza significa che le opere sono oggetti prodotti dall’ingegno e delle capacità umane (artefatti), e che gli esseri umani in quegli oggetti depositano una particolare visione del mondo, la propria.
Dunque si tratta di oggetti che ci dicono delle cose in modi particolari e lo fanno dall’interno di quella particolare narrazione che il Vasari ha battezzato “storia dell’arte”. Un lungo racconto costellato di straordinari protagonisti, delle loro visioni del mondo e delle loro storie. Questo per quanto attiene le proprietà semantiche delle opere e il loro carattere storico. Poi c’è l’altro aspetto, quello del medium; ovvero la corporeità dell’opera. L’arte concettuale ha tentato di dissolvere questo elemento, di sottrarre completamente il corpo alle opere d’arte. Sarebbe bello mostrare l’impossibilità logica di questa operazione. Le opere hanno un corpo per definizione; magari un corpo dislocato o complesso, ma quel corpo è sempre lì a incorporare l’idea dell’artista. La riuscita di un’opera si gioca proprio sulla capacità dell’artista di trovare un buon medium per la propria idea. Non c’è differenza, sotto questo profilo, tra l’Olympia di Manet e la Brillo Box di Andy Warhol.

Data una definizione, anche proposta in prima approssimazione, la tentazione è di trovare dei controesempi. C’è chi parla di opere d’arte immateriali (si veda qui, per esempio). Tali opere possono sembrare una semplice provocazione, ma forse non lo sono più di quanto a suo tempo lo sono state le opere di Duchamp e Warhol. Dunque come tenere insieme, se le pare il caso, la sua definizione e la pretesa degli artisti che propongono opere di questo tipo?

Certo, ha colto pienamente il punto. Però credo che questa volta l’onere della prova sia a carico di quegli artisti che sostengono di produrre opere prive di corpo. Ritengo che il corpo in tutti i casi ci sia; solo, il più delle volte, si tratta di un corpo particolare che – per esempio – è ridotto all’essenziale o, addirittura, coincide con il corpo dell’artista.

 

La Hayward Gallery di Londra, lo scorso giugno, ha inaugurato una mostra intitolata “Invisible: Art About the Unseen”. In mostra c’erano cinquanta opere “invisibili” realizzate da artisti famosi. Per fare qualche esempio, tra le opere esposte figuravano: il piedistallo su cui una volta si è appoggiato Andy Warhol che permette al pubblico di entrare in contatto con quel “non so che”, l’aura di Andy. Di Tom Friedman è esposto un foglietto bianco, 1.000 Hours of Staring, che egli stesso ha guardato, almeno di tanto in tanto, durante cinque lunghissimi anni. Di Gianni Motti sono esposti disegni invisibili, dipinti con un inchiostro magico e racchiusi in cornici, visibilissime, che danno corpo a quadri apparentemente uguali, ma che l’artista ci chiede di considerare diversi. E l’elenco potrebbe continuare a lungo.
In tutti i casi citati – potremmo divertirci a passare in rassegna le opere in mostra – le opere invisibili hanno un corpo visibilissimo; ciò che è richiesto, in dosi massicce, è casomai il lavoro di interpretazione per completare la lettura delle opere. Questo però non significa in alcun modo che l’opera sia priva di quello che definisco medium.

Lei cerca di smontare quello che definisce il pregiudizio in favore del bello”. In effetti il senso comune pare creare una connessione piuttosto stretta tra arte e bellezza, così che ci si aspetta che l’arte sia bella. Ne seguono situazioni per cui, se qualcuno dicesse che la mostra di opere d’arte che ha visto era brutta, saremmo portati a concluderne che ne ha un giudizio negativo. Può spiegarci come siamo giunti a un’arte che pare rifiutare il senso comune?

La connessione, in effetti, è strettissima; e ritengo che abbia due motivazioni principali. Anzitutto ha radici profonde nella struttura biologica degli esseri viventi. In altre parole, la disposizione alla bellezza è legata alla nostra conformazione biologica prima ancora che alla nostra identità culturale. Non è un caso che l’estetica si stia occupando con buoni risultati di molte questioni centrali anche per la biologia. La Rivista di estetica ha in preparazione un numero monografico sull’argomento.
La seconda motivazione ha invece a che fare, a mio parere, con la provenienza delle arti dalla sfera della téchne. I greci, come è noto, collocavano all’interno della téchne quelle che poi sono state classificate le arti belle, oltre a quella serie di attività che noi, oggi, ricondurremmo nell’ambito dell’artigianato. Tanto le arti belle, quanto l’artigianato richiedevano una buona dose di perizia tecnica per produrre artefatti ben riusciti. In questo quadro, l’arte aveva spesso carattere imitativo. Aveva cioè come obiettivo quello di imitare aspetti della realtà oppure, in moltissimi casi, di inserirsi nell’ambito di narrazioni importanti – pensiamo alle committenze religiose – afferendo una lettura “ingentilita” di molte delle cose raccontate. Non c’è proprio nulla di bello nella realtà di un corpo appeso a una croce. Anzi. Tuttavia gli artisti spesso hanno scelto di fare dei bei dipinti – nel duplice senso di dipingere a regola d’arte e di offrire una bella rappresentazione di un dramma assoluto. Si tratta, però, di una scelta stilistica. Nessuno vieta di rappresentare la realtà così com’è, privandola di orpelli, fronzoli e retorica. O magari addirittura di ritrarla in quelle che sono le sue venature nascoste, nelle sue crepe inquietanti. Pensiamo alla lucidità degli autoritratti di Francis Bacon: ci spiegano la terribile e meravigliosa complessità della psiche con altrettanta forza di una disamina psicologica. Sono belli? Io direi piuttosto che sono fatti molto bene; in altre parole raggiungono benissimo l’obiettivo che Bacon si era dato. Mostrare quanto possa essere non lineare, distorta e complessa la personalità umana.

Oggi la filosofia dell’arte, per dare conto della pratica degli artisti, ha mostrato la necessità di una filosofia sociale, rendendo apparentemente secondario il problema del bello e del piacere. Riconosco volentieri che la componente sociale giochi un ruolo importante, ma mi chiedo se essa basti. Non crede che alla fine sia inevitabile ritornare in qualche modo al bello e al piacere (magari come piacere puramente intellettuale), per dare conto di un giudizio socialmente ratificato in una maniera che non sia del tutto arbitraria?

È avvenuto effettivamente quello che lei dice, ma non per scelta della filosofia dell’arte. È stata l’arte ad allontanarsi dal bello e, in generale, a prendere le distanze dalle qualità estetiche. Le avanguardie avevano ovviamente delle ragioni per compiere una scelta di questo tipo che per larga parte aveva caratteri teorici. Personalmente credo che avessero delle buone ragioni.
La filosofia dell’arte, per parte sua, ha fatto il suo lavoro: si è cioè impegnata per chiarire tutte quelle cose che le pratiche artistiche avevano messo sottosopra. Ha cercato di elaborare definizioni o, come dico spesso, quasi definizioni per cercare di cogliere il senso non solo di quello che andava accadendo, ma più radicalmente di individuare quegli aspetti del concetto di arte che le nuove pratiche avevano rivelato.
Non ho idea di quello che accadrà e comunque la bellezza non è mai sparita dall’arte. Direi, piuttosto, che l’arte del Novecento vi si è contrapposta polemicamente e quella del secolo in cui viviamo l’ha un po’ messa da parte. Ne abbiamo un po’ tutti quanti nostalgia, e non credo che il piacere intellettuale – che molte opere ricercano – possa mettere a tacere quella nostalgia. In fondo, quanto più la bellezza si sottrae al mondo, tanto più la cerchiamo nell’arte.
Tuttavia, confesso che non mi sono chiare le ragioni per cui la cerchiamo ostinatamente nell’arte. O, meglio, penso che sia a causa di un pregiudizio antico quasi quanto il mondo, che vedeva nell’alleanza tra bello e buono (kalòs kai agathòs) la sintesi migliore della natura umana. Ma appunto è un pregiudizio; l’arte non deve dar forma ai pregiudizi, ma alle visioni del mondo degli uomini che la producono.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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