Se però le cose fossero così ovvie e pacifiche, il MOBA, il Museum of Bad Art a Boston, non sarebbe stato neanche progettato e una vasta parte dell’arte contemporanea non sarebbe giustificabile, a cominciare da Orinatoio-Fontana di Marcel Duchamp, per continuare con lo Studio del ritratto di Innocenzo X di Francis Bacon. Insomma, l’assenza di ogni bellezza sarebbe qualcosa di cui nessuno vorrebbe raccontare la storia, men che meno sarebbe disposto a trattarla con la stessa cura con cui invece si parla della bellezza (ma vedi il libro di Umberto Eco, Storia della bruttezza).
«E con questo?» – ribattono i fautori della teoria dell’opera d’arte come qualcosa di bello. «Forse che basta fornire qualche controesempio per poter chiudere la questione, come pretenderebbe un certo popperismo calato in filosofia dell’arte?». Data la confutazione, esito dell’ostensione di esempi di oggetti artistici non belli, anzi studiatamente non belli e perfino provocatoriamente brutti (ecco, ho usato la parola): non ci sarebbe più spazio per sostenere che il fatto di piacere sia una condizione necessaria dell’oggetto artistico in quanto tale. In realtà i controesempi non bastano, perché non di rado i fautori della tesi della bellezza come condizione necessaria dell’arte si difendono neutralizzandoli. Si può andare al museo della cattiva arte, per curiosità, per capire per converso cosa è la buona arte, per moda, se non forse per masochismo. Resta il fatto che quella che si vede ivi esposta è cattiva arte cioè, detto senza giri di parole, non è arte. Il fatto poi che le opere di Duchamp e Bacon abbiano e abbiano avuto successo, non significa necessariamente perciò stesso che esse siano arte. Avere successo infatti non è un sigillo di artisticità. Né è arte tutto ciò che fa colui che si presenta o è da alcuni considerato un artista. Detto altrimenti, il ruolo sociale non trasforma automaticamente in opera d’arte ciò che l’artista fa, come è facile capire.
Una delle più importanti teorie tra quelle schierate nel dare ragione dell’arte brutta è la teoria istituzionale. Essa trova nel filosofo americano George Dickie uno dei suoi esponenti più illustri. Secondo lui un’opera d’arte è un artefatto appartenente al genere di artefatti creati per essere presentati al pubblico del mondo dell’arte (cfr. The Art Circle, p. 80). Se dunque l’artista vuole presentare un oggetto, fosse anche brutto, al pubblico, la sua intenzione è sufficiente a farne un’opera d’arte. La bellezza dell’oggetto costituisce, secondo questo approccio, una eventuale caratteristica dell’oggetto, ma è tale da restare del tutto estrinseca all’oggetto d’arte come tale. Del resto, incalzano i nemici della tesi “l’arte-è-bella”, opere come Studio del ritratto di Innocenzo X sono famose e apprezzate dalla critica proprio perché sono brutte. Se Bacon, magari temendo il giudizio del pubblico, ne avesse attenuato la bruttezza, non avrebbe prodotto un’opera così potentemente comunicativa e perciò riuscita. Insomma certa arte è grande proprio perché è brutta.
Nemmeno la teoria istituzionale riesce però ad avere l’ultima parola nel dibattito sul bello e l’arte. Infatti le critiche che si possono muovere a tale impostazione sono molteplici. Mi limito a proporne di seguito alcune. In primo luogo, saremmo disposti a considerare come opera d’arte qualsiasi oggetto che qualcuno proponga come opera d’arte al mondo dell’arte? Se, ad esempio, volessi firmare una copia di Storia della bruttezza esponendo il libro in un museo come mia opera d’arte, saremmo disposti a considerare quel libro firmato un’opera d’arte? Si tratterebbe pur sempre di un artefatto sul quale opero con la mia firma, così dal farne attraverso la mia intenzionalità un’opera d’arte, nella tradizione del ready-made. Dietro al gesto ci sarebbe un’idea intrigante, senza dubbio. Questo sarebbe però sufficiente? In secondo luogo, la definizione scarica l’artisticità nella nozione di «mondo dell’arte» e lì nasconde l’esigenza di trovare dei criteri di artisticità, altrimenti il mondo dell’arte dovrebbe assorbire passivamente e acriticamente ogni opera propostagli dai sedicenti artisti. Se si vuole evitare una tale implausibile posizione, si deve allora ammettere che il mondo dell’arte accetterebbe le opere che considera meritevoli del proprio apprezzamento. E come può farlo, se non perché esse piacciono? Ma ammettere che piacciono è già un ammettere che, in qualche senso della parola, esse sono belle. I fautori della teoria istituzionale che avevano creduto di aver chiuso i conti col bello, se lo ritrovano davanti, emerso proprio dal cuore pulsante della propria teoria.