Un frammento di vita che si allunga nel cosmo

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Gianpietro Verza, progettista elettronico, è guida alpina da più di trent’anni. Ci siamo conosciuti durante il mio viaggio in Nepal e abbiamo avuto modo di parlare di educazione e della sua ricca esperienza al laboratorio Piramide. Di ritorno in Italia, gli ho chiesto di continuare la nostra conversazione in forma di intervista, per i lettori de «La ricerca». Lui ha gentilmente accettato e così abbiamo cominciato a scambiarci messaggi ed e-mail tra Italia e Nepal.
  • x”Dove, quando sono là, vado ogni mattina, appena alzato, come prima cosa: a riempirmi di bellezza, ringraziare e caricarmi di energia. La mia colazione spirituale”.
  • xGiampietro Verza al lavoro, in montagna, mentre gestisce le operazioni di un elicottero.

Verza ha svolto più di settanta missioni scientifiche in Nepal ed è uno dei maggiori esperti di soccorso ad alta quota. Grazie alle sue imprese è un profondo conoscitore dell’ambiente himalayano: per esempio, nel 1989 ha conseguito il record in salita rapida per aver raggiunto la vetta del Pumori (7150 metri) in 7 ore, partendo da quota 5700. A legarlo all’Himalaya è però soprattutto il lavoro scientifico che ha svolto e svolge al Laboratorio Piramide, sul monte Everest. Tra i suoi contributi, la partecipazione alla spedizione alpinistico-scientifica che, nel 1992, determinò la nuova quota esatta dell’Everest, usando tecnologie laser e GPS.

D: Mi raccontavi di essere nato a Rovigo, città certo non di montagna, ma di aver fin da giovane provato una irresistibile passione per la montagna: cosa ti attrae di essa, tanto da averle dedicato la vita?

R: Ho vissuto in campagna fino a cinque anni poi, per trovare lavoro, la mia famiglia si è spostata a Sesto San Giovanni (MI). Forse a me bambino è improvvisamente mancata la Natura e quando, a quell’età, ti manca qualcosa, è radicale. Quello che per me prima era l’emozione di confrontarmi con la Natura, per esempio di stupirmi della nebbia che ti si condensa addosso, sul maglione, andando in bicicletta, ora era lontanissima. Di rado la natura era lì da vedere, ma esisteva, ne ero sicuro: nelle belle giornate ventose, infatti, un profilo irregolare interrompeva l’orizzonte a Nord: si trattava delle Alpi. Il mio intuito di bambino mi diceva che quella non era opera umana, era la Natura. Doveva essercene tanta lassù, da ammucchiarsi cosi in alto. Là sopra avrei potuto rivivere le mie emozioni? Bisognava andarci per esserne sicuri. Con le prime vacanze estive in montagna la magia avvenne: mi resi conto di cominciare ad appartenere a qualcosa di molto vasto, con le montagne a farmi da seconda famiglia, potevo ancora cibarmi di Natura!

D: Quali sono le difficoltà peculiari della vita ad alta quota? Chi non sa molto di montagna può pensare che quella maggiore sia sul piano strettamente fisico-muscolare, in realtà è molto più che questo. Puoi aiutarci a capirlo?

R: Noi occidentali siamo abituati a una condizione esistenziale “satura”, piena di comodità, servizi, vita sociale e tante, tante cose che ci aggiungiamo e che gli altri ci aggiungono, per cui nulla deve mancare. Risulta perciò difficile privarsi delle comodità e non risentirne.

In realtà siamo continuamente a rischio di astinenza: tutte le cose comode a cui siamo abituati creano un grado di dipendenza. Così, quando siamo in montagna e lontani da tutto e da tutti, con metà ossigeno rispetto a quello che ci servirebbe e con la sensazione di freddo aumentata dal ridotto metabolismo, rischiamo di sentirci “inadeguati”. Cominciamo a contare i giorni per il ritorno. L’incredibile capacita di adattarci a qualsiasi situazione, privilegio della nostra specie, entra in difficoltà. Aggiungiamoci le avversità di ogni giorno, e pure il meteo ci si mette. È allora che, improvvisamente, capiamo di essere ospiti della Natura. Nella vita di ogni giorno riusciamo a tenere abbastanza sotto controllo le sue condizioni, solo per questo non diamo loro retta. In montagna sappiano invece che è la Natura a dettare legge, una legge che possiamo imparare ad amare, più che meramente rispettare per timore.

È così che ho imparato, ad amare la Natura e a mettermi in armonia con essa, quale che sia la giornata e comunque tiri il vento, anche se mi porta via o mi riempie di neve. Ogni momento libero ascolto il suo respiro e amo guardarla, in queste forme che sono cosi ardite, dai miei piedi fino alle nuvole.

E per non sbagliare, ogni mattina appena alzato vado a salutarla e a dirle che sono contento di stare tra le sue braccia. Glielo dico anche con lo spirito, con tutto ciò in cui credo.

Sulla punta di un masso indicato da un vecchio tibetano, dove arrivano le mie bandiere di preghiera, mi soffermo in meditazione. Il tibetano non c’è più, l’hanno trovato su un sentiero, addormentato per sempre, sorridente come quando accettava di andare a prendere le patate e caricarsele sulla schiena, anche se era il più vecchio. Mentre sono in equilibrio in cima al masso, contando cinquanta respiri, ho gli occhi chiusi e annuso l’aria, aspettando di riaprirli e rivedere tutta quella luce. Come negli occhi del tibetano, l’ultima volta che lo vidi e gli affidai il cucciolo di cane, quegli occhi così pieni di luce.

  • xAngels’ place, il posto degli Angeli: “è li dove immagino vadano ad ammirare il tramonto, sulla parete NO del Nuptse, 7980 m. Una parete di 3 km di altezza, salita da Tomaz Humar e Janes Jaeglich nel 1998: sono loro gli angeli. Janes è rimasto là. Thomas ha continuato a scalare, e poi e rimasto sul Langtang Lirung nel 2009.
  • x“Vista dall’alto dell’ambiente della Piramide. Si vede la grande colata del ghiacciaio del Khumbu e lo sfondo infinito delle montagne che verso SE sfumano nel pre-Himalaya, poi alte colline, pianura e golfo del Bengala, nell’Oceano Indiano, a poco più di 300 km. In quella direzione di notte si vede il lampeggiante dei temporali sulla costa, ma è cosi lontano che non arriva nessun suono. Un po’ come essere nello spazio.”

D: L’alpinismo può essere vissuto come un’esperienza di conquista e di lotta contro il proprio limite, ma mi pare di capire che, per come la intendi tu, è soprattutto un’esperienza di esplorazione e ricerca. Ci puoi spiegare in quale senso?

R: L’alpinismo è lo specchio di come vogliamo ridiventare animali tra le montagne. L’alpinismo che facciamo descrive la nostra curiosità e quanto questa si vuole spingere lontano. L’alpinista ha dentro un bambino curioso che guarda le montagne, allunga una mano e presto vuole essere là dove finiscono le sue dita.

L’alpinismo ti segue nella tua evoluzione, così all’inizio è l’incredibile scoperta di un mondo magico, poi ti ci metti dentro, e poi, un po’ per volta, diventi bravo e lo esplori sempre più nell’intimo, spingendoti in posti difficili e pericolosi; ma è di lì che devi passare.

Dall’altra parte, un po’ per volta, impari a razionalizzare il tuo operato e a dargli necessariamente un futuro. Se non fai attenzione ti puoi far male.

Scalare una montagna è un viaggio dentro di te, perché tu un po’ alla volta le appartieni, anche prima di scalarla.
Da giovane, mentre la scali sei inebriato da questa esperienza di armonia e bellezza, da quanto possono fare le tue mani nude aiutando a dare un po’ di equilibrio ai tuoi piedi, fino a che il mondo verticale ti si apre come un tempio, dove la tua danza ti porta alla sommità dell’altare.

Più cresci, più vivi queste esperienze, più le capisci e le interpreti in modo equilibrato. La montagna ti ha aperto i suoi luoghi segreti e tu le hai aperto le stanze del tuo cuore e della tua anima. Adesso nel tempio si è disegnato un raggio di luce sul quale puoi salire assorto in meditazione, senza peso, senza sforzo, in completa trasformazione.

La montagna ci insegna un percorso; una volta imparato a seguirlo, regala un’immensa consapevolezza su chi siamo e su come ci rapportiamo alle cose e agli esseri viventi che ci circondano. La vita ci pulsa dentro al ritmo della curiosità che ogni giorno riusciamo a percepire. Loro, le montagne, sono il posto tranquillo dove questo può accadere, e diventano un bacino di energia infinito.

D: L’alpinismo, mi dicevi, è un esercizio di ascesi: insegna cosa conta veramente, e a cosa rinunciare. Puoi spiegarcelo meglio, magari facendoci degli esempi?

R: L’alpinista è un po’ come il monaco che va a fare gli esercizi spirituali. Quando è pronto prende la sua bisaccia e si dimentica di tutto quello che lascia dietro di sé. Tutto ciò che non è necessario è dannoso, così come ciò che è necessario è indispensabile. Quando l’alpinista si mette davanti alla montagna e comincia a salire al campo avanzato sa che ogni grammo inutile ridurrà le sue probabilità di successo. Ma non esiste solo il peso fisico che ci trattiene in basso: esistono tutte le nostre immagini mentali che non ci servono. Siamo abituati a fare delle cose pensandone altre o pensando agli esseri umani che ci sono più cari. L’alpinismo ci chiede di ignorare tutto il resto e di dedicarci a una cosa sola: il nostro rapporto diretto con la Montagna. Se amiamo le montagne sentiamo questo imperativo: dedicarci a esse interamente, ridurci a esseri essenziali e piano piano annusare l’aria sempre più fina.

Dietro di noi lasciamo anche i nostri affetti: per qualche tempo dovremo fare senza. Questo allontanamento non farà che rinforzarli e irrobustirli.

Allo stesso tempo, non potremo però rinunciare a quello che è indispensabile, come ad esempio i guanti, per salvare le mani dal freddo. Anzi, in questo caso, sarà bene avere anche dei ricambi. E tra le cose necessarie è da contare anche il pensiero. L’innamoramento per la montagna è la determinazione a salire anche davanti agli ostacoli. La lucidità mentale serve a rendere le nostre poche forze efficaci, grazie a una strategia intelligente, che sappia tenere conto delle nostre condizioni, di quelle della montagna e di quello che, un po’ alla volta, ci aspettiamo succeda.

Da un grande della Montagna ho imparato a rispettare l’importanza dei tempi: quando scaliamo esistono dei ritmi di salita giusti, proporzionati alle difficolta e alla nostra migliore performance psicofisica.

Walter Bonatti osservava l’orologio e valutava attentamente i tempi della sua progressione: l’obiettivo diventava sempre più “fattibile” di ora in ora solo se al passare del tempo corrispondeva un risultato effettivo di metri superati verso la cima. Al contrario, l’alpinista doveva prendere atto che era più saggio rientrare che continuare una progressione sempre più affannosa e irresponsabile. L’alpinismo ci chiede di essere semplici ed efficaci, e questo ci abitua a contare sulle nostre risorse naturali personali, soprattutto, e in pochi ed efficienti attrezzi, oltre naturalmente a ciò che ci deve proteggere dalle intemperie.

Alle altissime quote la pressione dell’aria può scendere quasi a un terzo, e la nostra massima potenza fisica diventa un quinto del normale. Alimentarci è oneroso per l’organismo, per il consumo di ossigeno e per la difficolta ad assimilare: ci dovremo accontentare di poco. Bere è la cosa più importante dopo il respiro, in quota siamo una spugna che si va seccando per via del vento, dell’aria secca e della traspirazione. Il sangue denso che ci permette di resistere alla scarsa ossigenazione dell’aria in quota è troppo denso per il sistema circolatorio e per la circolazione periferica: se non lo diluiamo rischiamo un blocco cardiaco o renale, o il congelamento delle estremità.

Dovremo essere allo stesso tempo umili e intraprendenti, e non dovremmo perdere nessuna occasione per verificare che le nostre valutazioni siano equilibrate. Questo, e l’amore per la montagna, segneranno la via da seguire fino a che i passi saranno sempre più piccoli e lenti e la volta scura del cielo non arriverà a schiacciare l’orizzonte luminoso appena sotto di noi. Sulla cima siamo per pochi minuti un frammento di vita che si allunga nel cosmo. Dopo un po’ si riprende a camminare ed è anche più difficile, in discesa. Da qualche parte laggiù si continuerà a vivere e a sognare: le cime delle altissime montagne si concedono per poco tempo alla nostra fragile natura, ma l’uomo che scende non è più lo stesso che è salito. Scenderà magro e consumato dalla quota, ma dentro di sé troverà una nuova ricchezza interiore che lo accompagnerà con armonia, per sé e per gli altri.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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