Anch’io infatti parlerò di me, ma con una sostanziale differenza (oltre al fatto di non essere un personaggio famoso!): Eco non l’ho mai conosciuto, anche se qualche volta l’ho incontrato a Milano mentre passeggiava vicino al Castello, oppure a Bologna – ai tempi del mio Dottorato – quando si aggirava per i corridoi dell’Alma Mater con tanto di cappello e sigaro tra i denti…
Non ho neppure letto tutti i suoi saggi, lo confesso. Probabilmente ho fatto male, ma la sua produzione è stata così ampia da non consentirmelo: molti di quei libri, tra l’altro, giacciono nella mia libreria da anni senza che mi sia ancora deciso a trasferirli sulla scrivania o sul comodino…
Qualcuno di essi, però, approcciato (e compreso solo in parte) in età giovanile (e cioè Opera aperta, 1962, e Apocalittici e integrati, 1964) mi ha fatto capire che la cultura era qualcosa di diverso da come appariva dai polverosi manuali scolastici: e il merito di tutto ciò va alla mia insegnante di allora, la bravissima e innovativa professoressa Anna Marina Clerici del Liceo “Beccaria” di Milano, che – con grande stupore di tutti – ci impose quelle letture “echiane” a metà degli anni Settanta.
C’è poi stato il mitico Come si fa una tesi di Laurea (1977) utile non solo come prontuario pratico di abbreviazioni e citazioni, ma anche per alcuni suggerimenti comportamentali, tra i quali l’aureo precetto: “È di cattivo gusto ringraziare il relatore. Se vi ha aiutato ha fatto solo il suo dovere”. Parole sagge, no?
Taccio delle letture di qualche pagina di filosofia, storia medievale, semiotica o strutturalismo, fatte “per dovere” in varie fasi della mia vita, così come delle Bustine di Minerva dell’«Espresso» che meriterebbero di passare alla storia anche solo per il titolo: geniale.
I romanzi però sì, quelli li ho letti tutti. Anzi li ho aspettati sempre con ansia, come si aspetta da piccoli Babbo Natale o la Befana, iniziando a trepidare non appena c’era sentore che sarebbero potuti uscire… E mai ne sono stato deluso, anche se sarei disonesto nel dire che si tratta di sette libri esemplari, per struttura e ritmo narrativo.
Eppure mi rendo conto che a farmeli sentire così cari è stata proprio questa loro “imperfezione”, questa loro ipertrofia di dati, notizie, digressioni, curiosità erudite, che mi ha fatto provare sentimenti molto particolari.
I romanzi però sì, quelli li ho letti tutti. Anzi li ho aspettati sempre con ansia, come si aspetta da piccoli Babbo Natale o la Befana… E mai ne sono stato deluso.Anzitutto una profonda invidia verso “l’uomo che sapeva tutto”, secondo la bella definizione con la quale lo ha salutato il quotidiano «La Repubblica», sul quale spesso scriveva; definizione, questa (The Last Man Who Knew Everything) tradizionalmente associata alla figura del gesuita seicentesco Athanasius Kircher, erudito, scienziato, linguista, collezionista che Eco – tra l’altro – ha amato, studiato, e che fa capolino nel romanzo L’isola del giorno prima (1994). Invidia, la mia, dalla quale scaturiva però la voglia di saperne di più, di mettersi ingenuamente sulla scia della sua onniscienza; e che veniva talora lenita dal compiacimento che, in fondo, i miei studi storico-letterari mi rendevano comunque un lettore privilegiato.
Sì, Eco romanziere mi ha fatto maturare l’idea che se è vero che la cultura serve a interpretare la realtà, a formare una coscienza morale e civile ecc. ecc., (tutte cose nelle quali credo profondamente, intendiamoci!) questa serve (anche) a comprendere meglio cosa si legge, a goderne e “divertirsi” di più, e assaporare appieno quel Piacere del testo di cui parlava Roland Barthes.
Mi sono così perso nelle abbazie medievali (Il nome della rosa, 1980), ho inseguito Templari e Rosacroce (Il pendolo di Foucault, 1988), ho fatto naufragio nei mari del Sud (L’isola del giorno prima, 1994), ho vissuto nel Piemonte ai tempi del Barbarossa (Baudolino, 2000), ho visto gli intrighi e le falsificazioni del Risorgimento (Il cimitero di Praga, 2010) e quelle dell’Italia degli anni Novanta (Numero 0, 2015) ma anche riletto i fumetti e i “romanzetti” che mio padre leggeva negli anni Quaranta (La misteriosa fiamma della regina Loana, 2004).
Eco mi ha fatto maturare l’idea che se è vero che la cultura serve a interpretare la realtà, a formare una coscienza morale e civile, questa serve (anche) a comprendere meglio cosa si legge, a goderne e ad assaporare appieno quel piacere del testo di cui parlava Barthes.E viaggiando nel tempo e nello spazio ho cercato, come in una sorta di “caccia al tesoro”, le citazioni, i riferimenti dotti, le allusioni artistiche e letterarie, probabilmente riconoscendone solo una percentuale irrisoria. Ho partecipato, cioè, a un gioco di società le cui fila erano tenute dall’“uomo che sapeva tutto”, il quale voleva mettere i suoi lettori alla prova; e lo faceva con compiaciuta e disinvolta ironia, talora con assoluta leggerezza, e non con l’arcigno piglio del professore che poi ci avrebbe interrogato…
Ho dunque viaggiato e fantasticato – e mi è piaciuto farlo – dal mio comodo divano, da una sdraio sulla spiaggia, dallo strapuntino di un treno, e mi sono sentito, lo ribadisco, un privilegiato. Ciò perché “chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… perché la lettura è un’immortalità all’indietro”. E questo non l’ho certo scritto io (che 70 anni non li ho ancora…), ma Umberto Eco in una Bustina del 1991.
Anche per frasi come queste, gli sia lieve la terra: sta a noi lettori, ora, garantire alla sua opera una “immortalità in avanti”.