In queste ore tutto il mondo è in apprensione per Nelson Mandela. Inevitabili i bilanci sul suo operato politico. È opinione condivisa che il capolavoro politico di Madiba, nonostante i molti errori commessi, sia quello di aver favorito la nascita della ormai famosa “Commissione per la verità e la riconciliazione”. Nata nel 1995, cinque anni dopo l’uscita di Mandela dal carcere, e un anno dopo le prime elezioni democratiche con cui si chiudeva il periodo dell’apartheid, la Commissione aveva lo scopo di risolvere il problema del destino degli aguzzini compromessi con il passato regime.
Da una parte la via giudiziaria sembrava necessaria, dato che la comunità internazionale aveva definito l’apartheid un fenomeno criminale. Come il nazismo e il fascismo. Dall’altra, l’avvio di migliaia di processi, destinati a prolungarsi per almeno un decennio, non avrebbe certo favorito la debole unità nazionale e la difficile convivenza fra bianchi e neri.
La Commissione scelse di perseguire una forma di giustizia simbolica: ai carnefici del vecchio regime, anche se imputabili di omicidi, rapimenti, torture o di altre azioni contrarie ai diritti fondamentali dell’uomo, veniva garantita l’impunità attraverso la concessione di un’amnistia, purché fossero disposti ad un pubblico confronto con le vittime.
In particolare, tre erano le condizioni richieste per accedere a questo straordinario beneficio. La prima riguardava l’arco temporale. L’amnistia poteva essere richiesta solo se il reato era stato commesso fra marzo 1960, quando l’African National Congress aveva iniziato la lotta armata come risposta alla strage di Soweto, e il 10 maggio 1994, quando Mandela era stato eletto primo presidente della Repubblica.
La seconda era che il reato fosse stato commesso per cause politiche; non erano considerati validi motivi personali o semplicemente criminali. La terza e più importante condizione era che ci dovesse essere una confessione piena e totale. Bisognava dichiarare tutto quello che si era fatto, assumersi responsabilità precise e definite. L’amnistia infatti era molto specifica e applicata per ogni singolo tatto considerato.
La Commissione metteva a disposizione un foro in cui carnefice e vittima potevano confrontarsi e raccontare liberamente la verità. La vittima poteva finalmente dire cosa aveva vissuto e sofferto. Poteva mettere il carnefice direttamente a confronto con la realtà di quanto accaduto, ma anche con la narrazione più completa di come ci si sentiva ad aver amato coloro che erano stati torturato o assassinati impunemente; o di che cosa significava essere torturati.
Il carnefice, d’altro canto, aveva l’opportunità di raccontare la verità senza temere una punizione e la possibilità, faccia a faccia con la stessa persona da lui atrocemente offesa, di provare qualcosa di simile al rimorso, anche se il rimorso non era necessario per l’amnistia.
I risultati sono stati buoni e in parte imprevisti. Infatti, non tutti coloro che potevano beneficiarne hanno usufruito di questa opportunità: molti funzionari del vecchio regime hanno preferito sostenere le loro ragioni in un processo regolare, che desse loro la possibilità di dimostrare la propria innocenza pur a rischio di pesanti condanne.
La proposta della Commissione nasce come espressione di una nozione chiave della filosofia delle popolazioni africane: l’Ubuntu, un concetto espresso in lingua bantù dalla massima “Umuntu ngumuntu ngabantu”, traducibile più o meno in questo modo: “io sono perché noi siamo”, o anche “una persona è tale solo attraverso le altre persone”.
L’Ubuntu esprime dunque una concezione dell’umanità orientata verso gli altri, la credenza in un legame universale che unisce gli uomini nella loro totalità, focalizzandosi infine sul rapporto di lealtà che deve regolare le relazioni sociali. Nella cultura delle popolazioni sudafricane, l’Ubuntu assume significati religiosi, suggerendo che la persona deve diventare tale comportandosi con il resto dell’umanità in modo conforme al rispetto degli antenati e in loro venerazione.
Neppure mancano le accezioni politiche: il concetto di Ubuntu è spesso usato per enfatizzare il valore dell’unità nazionale in connessione con l’idea di Rinascimento Africano, così come la necessità che gli interventi politici in una situazione tanto tesa rispettino sempre forme di etichetta umanitaria. Dopo il Sudafrica, altri Tribunali morali sono stati creati in Cile, Sierra Leone, Timor Est e Perù. E la neonata commissione burundese sta in questi anni iniziando a fare i conti con l’odio etnico fra Hutu e Tutsi.
Ma Ubuntu è un principio utile per pensare a nuove forme di risoluzione di tutti i conflitti, non solo quelli politici. È il caso delle controversie civili e commerciali. Dal 2011 ogni cittadino italiano coinvolto in una lite civile, dalle successioni ai contratti bancari, dalle locazioni al danno da responsabilità del medico, prima di poter andare in giudizio dovrà fare un tentativo obbligatorio di conciliazione.
Non è un caso che la legge sia stata promossa e divulgata da un comitato di avvocati, professori universitari e intellettuali che si è dato il nome Ubuntu.