L’invettiva contro Firenze
Perché il canto di Ulisse si apre con la famosa, sarcastica invettiva contro Firenze, che sembra un’appendice dell’episodio precedente, quello dei ladri e di Vanni Fucci? Perché, in altre parole, Dante non ha concluso il discorso sulla settima bolgia nel canto XXV e ha “introdotto” l’episodio di Ulisse con una sequenza che a prima vista non svolge affatto una funzione “introduttiva”?
La risposta al quesito dovrebbe muovere dalla riformulazione della domanda: quali elementi, nelle prime terzine del nuovo canto, le rendono un elemento non di introduzione all’episodio di Ulisse, ma di collegamento fra i due episodi? Firenze è presentata come patria di ladri perché Dante ha trovato fra questi peccatori ben cinque suoi concittadini. Ma in che modo questo fatto si lega all’episodio di Ulisse?
Osserviamo innanzitutto che l’invettiva si conclude con la serie di rime «tempo : tempo : m’attempo», che anticipa l’attenzione ossessiva alla cronologia del discorso di Ulisse, la sua insistenza sul tema del tempo (il monologo dell’eroe antico, infatti, è scandito in tre lunghe sequenze dalla ripetizione dell’avverbio temporale “quando”: «Quando / mi diparti’ da Circe», «quando venimmo a quella foce stretta», «quando n’apparve una montagna…»). L’insistenza sul fattore tempo è decisiva, come vedremo fra poco, per comprendere appieno la complessità del personaggio. Non solo: nella seconda sequenza del canto XXVI la descrizione della nuova bolgia, dove le anime sono avvolte dalle fiamme, si conclude con un doppio richiamo alla colpa dei ladri descritti nei due canti precedenti: «nessuna [fiamma] mostra ’l furto», cioè lascia vedere ciò che nasconde, «e ogne fiamma un peccatore invola», cioè appunto ruba, sottrae alla vista. Infine, tra le colpe per cui Ulisse è condannato all’inferno Virgilio indica il furto del Palladio, il simulacro di Atena che proteggeva la rocca di Troia (colpa, sia detto per inciso, che sembra difficile ricondurre alla medesima categoria delle altre due, ossia l’inganno del cavallo e lo smascheramento di Achille a Sciro, e proprio per questo dovrebbe accendere l’attenzione del lettore).
Tutto questo il lettore non lo sa ancora, lo verrà scoprendo leggendo il canto. Ma è indubbio che i primi 12 versi costituiscano una sorta di ouverture tematica, una sapiente transizione fra l’episodio dei ladri e quello di Ulisse.
Perché Ulisse?
Il personaggio di Ulisse costituisce, tra i dannati, un’evidente eccezione: dopo gli spiriti magni del Limbo, infatti, Dante ha incontrato sempre e solo personaggi moderni, suoi contemporanei o di pochi anni addietro, e così sarà anche nel prosieguo della prima cantica: da Francesca a Brunetto, da Pier delle Vigne a Vanni Fucci, da Ciacco a Ugolino, da Filippo Argenti a Branca Doria, siamo sempre nell’ambito della storia (o della cronaca) duecentesca. Ulisse invece appartiene all’antichità più remota. Come si spiega questa scelta? Perché Dante ci parla del viaggio di Ulisse e non, per esempio, di quello dei fratelli genovesi Ugolino e Vadino Vivaldi, di cui nel 1291 si erano perdute le tracce poco dopo che avevano superato lo stretto di Gibilterra con un equipaggio di trecento uomini?[1]
È evidente in primo luogo che Dante si aspetta che i suoi lettori notino il carattere eslege di Ulisse e confrontino quindi la sua figura con le altre figure antiche incontrate o nominate nel poema: Virgilio, naturalmente, la cui saggezza di affettuoso pedagogo si contrappone a una curiosità intellettuale fine a se stessa, come quella dell’itacese, che diventa hybris; Catone, altro “famoso saggio”, nonché figura Christi, che Dante incontrerà all’arrivo in Purgatorio (e non a caso userà in quell’occasione le stesse parole del canto di Ulisse: “com’altrui piacque”, per indurre il lettore attento a istituire il confronto); ma soprattutto Enea, (apertamente evocato all’inizio dell’episodio: “prima che sì Enëa la nomasse”), protagonista di un viaggio apparentemente simile, in realtà opposto a quello di Ulisse – quest’ultimo è un allontanamento volontario dalla patria (dal figlio, dal padre, dalla moglie) motivato dall’«ardore / […] a divenir del mondo esperto», il viaggio di Enea è invece un viaggio di esilio forzato, che si rivela in itinere una ricerca dell’“antica madre”, cioè della patria ancestrale, perduta e dimenticata; Ulisse viaggia con pochi compagni, Enea con un intero popolo; Ulisse va verso la propria rovina, Enea è invece destinato a fondare una nuova civiltà, voluta dalla Provvidenza…
Queste contrapposizioni, però, a mio avviso non soddisfano appieno, perché rischiano di porre Ulisse in una luce troppo unilateralmente negativa. Ladro di immagini sacre e superbamente irrispettoso dei limiti oltre i quali è bene che l’uomo “non si metta”, Ulisse è però tutt’altra cosa da Vanni Fucci, ladro di arredi sacri e bestemmiatore, e non c’è lettore che non se ne renda conto. Forse bisogna tornare alla domanda: perché un antico e non un moderno? e cercare una seconda risposta.
I genovesi fratelli Vivaldi, come i più noti veneziani fratelli Polo, viaggiavano per commerciare, non per conoscere – avevano una finalità economica, pratica, non intellettuale. Dante non contrappone a Virgilio e agli altri eroi dell’antichità un volgare materialista, ma un eroe della conoscenza. Per questo, mi pare, il tema del tempo ha tanta importanza nel discorso di Ulisse: perché la mentalità mercantile, già nel Duecento, aveva scoperto che il tempo è denaro – ma non di questo certamente si cura Ulisse: la sua ossessione per il tempo che passa non è quella di chi ne coglie il valore economico, bensì quella di chi, pagano, sa di avere a disposizione solo la vita terrena, e non l’eternità che è stata promessa ai cristiani, e sente quindi con angoscia la propria limitatezza e la propria piccolezza (la «tanto picciola vigilia / d’i nostri sensi»). In Ulisse Dante coglie una dimensione nobilmente drammatica legata proprio alla sua sete di conoscenza, che pure è all’origine del suo peccato di hybris. Dante sa di rivolgersi a un lettore che “si aspetta” un contemporaneo, e quindi si chiederà il perché di un antico, e attraverso la riflessione sul tempo fornisce a questo lettore una chiave per stabilire un’altra contrapposizione, quella fra chi (i mercanti contemporanei) viaggia per sete di denaro, e chi (l’eroe antico) viaggia per sete di conoscenza – e perde il senso della misura per eccesso di ardore.
Dante condanna Ulisse per la sua mancanza di senso del limite, che lo porta a sfidare il mistero (e a restare vittima della propria curiosità), ma nello stesso tempo si guarda bene dal confonderlo con i viaggiatori-mercanti: altra è l’avidità tutta materiale dei Vivaldi, altra l’avidità intellettuale del pagano Ulisse. Dei primi il poeta avrebbe potuto dare con ogni probabilità solo una rappresentazione “appiattita”, unilateralmente critica, come di un Filippo Argenti o di un Branca Doria; del secondo offre viceversa un ritratto sfaccettato e complesso, come di tutte le grandi figure dell’Inferno con cui il poeta stesso, nel momento in cui le condanna, non può mancare anche di identificarsi.
A conferma di ciò, si ricordi come, ai versi 64 e segg., Dante si mostri enormemente attratto dalle figure di Ulisse e Diomede: rischia addirittura di cadere nella bolgia, tanto si sporge dal ponte su cui si trova, e supplica Virgilio di poter parlare a quelle anime con un’enfasi assolutamente eccezionale: «assai ten priego / e ripriego, che ’l priego vaglia mille…» Come nel caso dei lussuriosi o dei suicidi (per tacer d’altri), Dante è coinvolto in prima persona: si rende conto che in lui stesso cova il rischio della tracotanza intellettuale – e mette sull’avviso il lettore: «quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi, / […] più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio, / perché non corra che virtù nol guidi» (vv. 20-22). Il vero termine di paragone per comprendere la ricchezza di sfaccettature di Ulisse è in ultima istanza Dante stesso.
La collocazione dell’episodio
Resta una terza, decisiva domanda, la cui risposta mi pare utile a meglio precisare lo snodo ideologico del canto: perché Dante colloca l’episodio di Ulisse nel canto XXVI? Il numero 26 non sembra avere un valore particolare, nella complessa architettura numerologica del poema sacro…
In verità, il canto XXVI ha una posizione assai importante, perché cade a nove canti dalla conclusione dell’Inferno, e 9 è uno dei numeri-chiave della Commedia. Dante ha quindi collocato l’episodio decisivo sui limiti della ragione umana in posizione esattamente speculare rispetto all’episodio in cui per la prima volta tale tema emerge esplicitamente. Tanto speculare che, come il IX canto è strettamente legato a quello che lo precede, così il XXVI è strettamente legato a quello successivo (e spesso questo a scuola viene trascurato, come se la fine del canto coincidesse con l’uscita di scena di Ulisse – non è così, come sappiamo, sia perché Virgilio conclude nel XXVII il colloquio con l’eroe antico, sia perché Dante subito incontra altri dannati della medesima bolgia…). Ma vediamo nel dettaglio come si articola il rimando fra i due episodi.
Nel canto VIII Dante e Virgilio si trovano davanti alle mura della città di Dite e Virgilio, bloccato dai diavoli, deve attendere l’aiuto di un “messo” celeste, che giunge nel canto IX e consente ai due poeti di continuare il viaggio, aprendo le porte con un tocco della sua bacchetta. Il significato allegorico dell’episodio è lampante: la saggezza virgiliana, a cui noi possiamo giungere con le forze dell’intelligenza e della ragione umana, è efficace nell’affrontare i peccati di incontinenza, legati a impulsi naturali in sé buoni, che diventano vizi solo per mancanza di misura, ma si rivela impotente di fronte al male più radicale, cioè ai peccati del Basso Inferno (violenza, frode, tradimento), che hanno origine in un più profondo pervertimento della natura e contengono un elemento misterioso, una distruttività non spiegabile con gli strumenti della ragione e dell’intelligenza. Solo la Grazia divina, la saggezza che deriva dalla Rivelazione, e quindi è a sua volta legata a una dimensione di mistero e di ineffabilità, ci permette di affrontare questo tipo di male – nel caso di Dante, di proseguire il viaggio e di vincere le paure più tremende, fino all’incontro con Lucifero[2].
Nel canto XXVI, Dante torna ad affrontare questi temi. La curiosità intellettuale non può essere per lui una colpa, neanche quando spinge a osare quanto non è mai stato osato prima. Basterebbero a confermarlo gli altri versi famosi del canto II del Paradiso, in cui (con metafora nautica, a richiamare ancora una volta il canto di Ulisse) Dante si vanta di prendere un’acqua che nessuno ha mai corso prima. I famosi versi «Fatti non foste a viver come bruti [cioè come animali irragionevoli] / ma per seguir virtute e canoscenza» sono messi in bocca al dannato Ulisse, ma esprimono un concetto che Dante evidentemente sottoscrive.
La contrapposizione che Ulisse permette al poeta di sviluppare è tra la ragione che aspira all’indipendenza, la curiosità che si appaga di sé stessa e diventa tracotanza e orgoglio, e la ragione al servizio della fede, che è pronta a cedere il passo a quest’ultima di fronte al mistero, alla montagna «bruna / per la distanza» che Ulisse trova al termine del suo viaggio. Le note spiegano che si tratta del Purgatorio, per la cui descrizione Dante potrebbe essersi ispirato al Picco di Tenerife, di cui forse aveva avuto notizia dai resoconti dei navigatori arabi… E ovviamente Ulisse, in quanto pagano, peccatore e tracotante, non può avere accesso al secondo regno dell’aldilà cristiano. Ma, ancora una volta, Dante sta anticipando: che si tratti del Purgatorio lo capiremo solo all’inizio della seconda cantica, attraverso piccole spie linguistiche, per esempio il ritorno di espressioni il già ricordato «com’altrui piacque», e attraverso rimandi espliciti alle costellazioni australi («l’altro polo») e al fatto che nessuno ha mai potuto navigare quelle acque e tornare a raccontarlo. Qui, nel XXVI dell’Inferno, non ci viene spiegato nulla. Dante lascia che questa montagna resti avvolta nel mistero perché appunto di un mistero si tratta: la cultura pagana è in grado di affrontare gli enigmi di questo mondo, ma (come Virgilio ha dovuto arrestarsi di fronte ai diavoli del Basso Inferno) deve arrestarsi di fronte al sacro, che solo la Rivelazione rende comprensibile ai cristiani.
Note
[1] La questione è stata autorevolmente sollevata dallo studioso americano John A. Scott nel suo saggio L’Ulisse dantesco (in Dante magnanimo. Studi sulla Commedia, Olshki 1977) e ha meritato fra le altre la risposta di Maria Corti (in Percorsi dell’invenzione, Einaudi 1993, ora in Scritti su Cavalcanti e Dante). Fra gli uomini della spedizione, detto per inciso, c’era un Doria parente di quello che Dante incontra nel canto XXXIII, ciò che avrebbe offerto al poeta l’occasione per un rimando interno tutt’altro che disprezzabile.
[2] Un altro episodio che richiama il canto IX, proprio in relazione al tema della paura: Dante di fronte all’incarnazione stessa del male resta come paralizzato, come impietrito – «Io non mori’ e non rimasi vivo», dice – e proprio nel canto IX l’apparizione di Medusa aveva già rischiato di trasformarlo in sasso, in “smalto” – allora Virgilio gli aveva bloccato la vista, segno che Dante non era pronto ad affrontare il mostro, nell’ultimo canto invece è lo stesso Virgilio a scostarsi per consentire a Dante di vedere con i propri occhi «lo ’mperador del doloroso regno».