In quel fornitissimo fondaco letterario, storico, sociologico che è il Decameron di Boccaccio non poteva mancare una novella che si inserisce bene in un percorso dedicato alla transessualità. Diversamente da Tiresia e Ifi, non si tratta di una transizione definitiva, quanto di un temporaneo passaggio di genere che presuppone la dimensione culturale di tutto ciò che per inerzia più che per convenzione si usa definire «maschile» o «femminile».
Siamo nella seconda giornata, dedicata, secondo l’accordo della brigata, a «chi, da diverse cose infestato, sia oltre alla sua speranza riuscito a lieto fine». La nona novella, raccontata dalla regina in carica, Filomena, alle «carissime donne» (leggi: donne e uomini), ha per protagonista una coppia non aristocratica felice e fedele: il mercante Bernabò Lomellini da Genova e Zinevra (nome da pronunciare come se iniziasse con s sonora). Mentre si trova a Parigi in allegra compagnia, Bernabò fa una scommessa con un collega, Ambrogiolo da Piacenza, sulla castità della propria moglie. È tipico della tradizione misogina, infatti, sminuire la costanza delle donne, compresa la consorte di chi crede di possedere l’unico esemplare degno di estrema fiducia. Secondo Bernabò, Zinevra è «bella del corpo e giovane ancora assai e destra e atante della persona, né alcuna cosa era che a donna appartenesse, sì come di lavorare lavorii di seta e simili cose, che ella non facesse meglio che alcuna altra» (II.9.8); Zinevra sembra la classica trophy wife, dotata di una bellezza di cui rendere orgoglioso il marito e campionessa di cucito. È anche una donna istruita: sa «leggere e scrivere e fare una ragione» (II.9.9), proprio come un mercante. Ambrogiolo però non è convinto e, sostenendo le istanze dei «naturali appetiti» (II.9.17), si dice pronto a dimostrare che Zinevra non è l’eccezione che conferma la regola, ma la regola e basta. Bernabò sostiene invece che Zinevra è addirittura più forte degli uomini comuni (cosa che si realizzerà nel seguito) e formalizza la scommessa, proponendo una somma ragguardevole (5.000 fiorini d’oro!).
L’avido Ambrogiolo si mette subito all’opera, parte per Genova e capisce che Bernabò aveva ragione: Zinevra è irremovibile. Decide allora di giocare sporco e, fattosi introdurre con l’inganno nella sua camera da letto dentro una cassa, ne fuoriesce di notte e ha così modo di veder dormire Zinevra «bella ignuda come vestita» (II.9.27); alla ricerca di una prova di un amplesso mai avvenuto, Ambrogiolo nota un neo biondo-peloso nelle parti intime della giacente e si cura inoltre di sottrarle «una borsa e una guarnacca […] e alcuno anello e alcuna cintura» (II.9.28). Dopo tre notti di permanenza voyeuristica nella cassa tutta per lui, Ambrogiolo è trasportato fuori casa e si affretta a fare ritorno a Parigi per riscuotere dal malcapitato Bernabò i fiorini pattuiti.
Di fronte al suo racconto dettagliatissimo Bernabò è costretto a proclamarsi sconfitto: paga il collega, andando così in bancarotta, e, colpito nell’italico onore, organizza l’omicidio della moglie, giudicata fedifraga senza essere nemmeno invitata a giustificarsi (la testimonianza di un uomo conta di più, ed è già una sentenza di condanna). Tuttavia, Zinevra riesce a fuggire, inaugurando una serie di travestimenti che diventano riti di passaggio continui (Elissa Weaver ha parlato di «semiotica del vestire»); prende dal sicario del marito «farsetto e un cappuccio» (II.9.40) e gli consegna i propri abiti femminili: «racconciò il farsetto a suo dosso, e fattol corto e fattosi della sua camiscia un paio di pannilini e i capelli tondutisi e trasformatasi tutta in forma d’un marinaro, verso il mare se ne venne» (II.9.42). Sulla nave di un catalano Zinevra si cambia di nuovo («di miglior panni rimesso in arnese», II.9.43) e raggiunge il sultano in Egitto, il mondo altro del tempo, dove potrà rifarsi una vita come Sicurano da Finale, sulla cui identità di genere nessuno ha dubbi, grazie ad abiti, voce e movimenti tipicamente maschili. Da qui in avanti la stessa narratrice utilizza il maschile singolare per riferirsi a Zinevra-Sicurano.
Sembra tutto finito, invece no. A una fiera di mercanti Zinevra-Sicurano, diventato uomo di fiducia del sultano grazie alle proprie capacità mercantili (anche su questo Bernabò aveva ragione), riconosce esposte quella borsa e quella cintura che Ambrogiolo (lei non sapeva esattamente chi) le aveva sottratto e inizia a capire che cosa aveva scatenato il progetto del marito di farla uccidere. Conversa, non riconosciuta, con Ambrogiolo e grazie alla sua influenza a corte fa venire ad Alessandria d’Egitto anche Bernabò, ormai impoverito, e a organizzare, dopo ben sei anni, un salomonico processo per dimostrare l’innocenza propria e la colpevolezza di Ambrogiolo, costretto dall’autorità a dire finalmente la verità. Sicurano promette l’apparizione anche della donna incriminata e ora scagionata, che altri non è che lui stesso: lasciata «la maschil voce» e «stracciando i panni dinanzi e mostrando il petto» (II.9.68-69), Sicurano torna Zinevra. Reintegrata lei come moglie di Bernabò, e ritrovatisi entrambi ricchi grazie alla confisca dei beni di Ambrogiolo, i coniugi Lomellini fanno ritorno a Genova su una nave messa a disposizione dal sultano e lì – immaginiamo – vissero felici e contenti, anzi felicз e contentз (qui lo Schwa plurale è d’obbligo).
Al di là del senso dell’onore tradito da parte del maschio di casa, sbugiardato davanti ad altri maschi, la novella di Zinevra mostra che il passaggio di genere è come un cambio d’abito, un accessorio accortamente sfruttato dalla donna per proteggersi e addirittura vendicarsi. E, caso piuttosto raro in Boccaccio, qui è il corpo di un uomo e non di una donna a fare una brutta fine: Ambrogiolo infatti viene unto di miele e legato a un palo; sarà ucciso in meno di 24 ore da mosche e tafani e non ne rimarranno che le ossa, esposte come monito per altri potenziali calunniatori.
Il crossdressing salvifico di Zinevra ci rivela quanto la pelle d’uomo fosse uno scudo pressoché inscalfibile rispetto alla ben più permeabile pelle di donna. È un tratto che caratterizza i romanzi antichi e anche la trama del primo romanzo italiano scritto da un’autrice, l’Urania della padovana Giulia Bigolin (o Bigolina), nata intorno al 1518 e morta prima del 1561. Rimasto inedito fino ad anni recenti, l’elegantissimo manoscritto dell’Urania è conservato nella Biblioteca Trivulziana di Milano e si trova ora esposto a Palazzo Reale nella mostra Tiziano e l’immagine della donna nel Cinquecento veneziano.
La protagonista eponima, Urania per l’appunto, fugge dalla propria città, Salerno (e dall’amato Fabio, che l’aveva respinta), travestita da uomo e in questa foggia farà innamorare di sé un’altra donna, Emilia, mentre vaga per l’Italia e dispensa consigli matrimoniali ai giovani di entrambi i sessi (o, meglio, generi) che via via incontra, per poi sposarsi con Fabio dopo varie disavventure e colpi di scena. Il suo è del resto un nome parlante, che evoca la musa dell’astronomia o, più probabilmente, l’Afrodite Urania, che Platone nel Simposio pone all’origine dell’amore celeste e che dalla fine dell’Ottocento diventerà la protettrice dei poeti omoerotici inglesi, detti appunto «uraniani» (e «uranismo», nella perfidamente erudita Albione, era sinonimo di omosessualità). Senza contare che, nel relativo manga, Sailor Uranus convive e combatte con la compagna Sailor Neptune; la loro è una relazione lesbica che rimonta in ultima analisi al dio greco Urano, evirato dal figlio Crono con l’aiuto della madre Terra (Gea) e dunque associato a una trasformazione sessuale che fa di lui, personificazione del Cielo, una primordiale trans-divinità.
Il travestimento è una costante della letteratura cinquecentesca, come anche del teatro, se pensiamo che, non in Italia ma in Inghilterra, i ruoli femminili erano interpretati da attori maschi. Sotto il trucco e gli abiti di scena, ad esempio, Giulietta e Romeo non erano altro che due uomini travestiti (lo si vede bene nel film Shakespeare in Love, del 1998), proprio come le maschere folkloriche di tanti paesi italiani: a Borgomanero, nel Novarese, durante la Festa dell’Uva di settembre sfilano per le strade della città la Sciòra Togna (una dama matronale dagli abiti pomposi) e la sua fidata serva Carulèna, interpretate fin dalla loro ideazione, nel fascistissimo anno 1936, da uomini, abilissimi, oltre tutto, nell’arduo dialetto locale; a loro il sindaco consegna simbolicamente le chiavi della città, che per qualche giorno è così governata da due drag carampane. Si tratta appunto di quell’elemento drag che popola locali notturni e show televisivi nel mondo occidentale, ma che risale alla fine dell’Ottocento e che a lungo ha subìto episodi violenti non dissimili dalla transfobia. In India, Pakistan e Bangladesh esistono vere e proprie comunità organizzate di transgender, chiamati/e Hijra.
Dall’osservazione degli spettacoli di drag queen, con le loro vesti raffinate pensate come l’essenza al quadrato del tipo della femminilità, la filosofa contemporanea Judith Butler ha formulato la propria teoria del genere come attributo culturale, letteralmente performativo. Zinevra che “si mette in scena” come Sicurano, per quanto non lo faccia per un pubblico di ammiratori o ammiratrici, veste e sveste le due identità con nonchalance, anche se è chiaro che lo fa per necessità, dal momento che al tempo un genere aveva più autorità dell’altro. Non sarà anche per questo che il non binarismo queer propone di superare le barriere tradizionali e i ruoli stereotipici legati a ciò che è “da uomo” o “da donna”? Zinevra e ancor più Urania lo avevano già capito e agito per una fase transitoria, salvo poi, ottenuto il loro scopo, rientrare nei ranghi della società patriarcale come mogli legittime e onorate. Il loro, certo, è un travestitismo per così dire difensivo, alternativo all’annientamento; ci piace immaginare che, se la loro storia fosse ambientata nel presente, Zinevra e Urania, rimaste a proprio agio nei loro nuovi abiti maschili, farebbero concorrenza king alla drag queen RuPaul.
Leggi anche il primo articolo, su Tiresia, il secondo, su Ifi, e il quarto, su Ricciardetto e Fiordispina.
Johnny L. Bertolio sarà al Salone del Libro di Torino per parlare di Donne e letteratura: stanze, isole, giardini, il 21 maggio, h. 19:45-20:45, Sala Ambra, PAD 1