Non solo Tiresia. Ovidio dedica uno spazio più ampio a un altro, forse meno noto, mito di metamorfosi transessuale. Protagonista è una fanciulla dell’isola di Creta, terra di emancipazione femminile e di pratiche non conformi (come la zooerastia della regina Pasifae, invaghitasi di un toro e ispiratrice di uno degli affreschi pompeiani che, insieme con i priapi, periodicamente animano mostre sull’eros al tempo dei Romani, come la recente Arte e sensualità nelle case di Pompei).
In una famiglia non nobile, un uomo, Ligdo, libero ma non ricco, spera che la moglie Teletusa partorisca un bambino, più adatto, secondo la mentalità corrente, alle necessità materiali della loro condizione sociale. Nel caso il futuro bebè sia una femmina, sarà meglio sopprimerlo. Teletusa cerca di convincere il marito a ravvedersi, invano. Finché una notte le appare la dea Iside, con la mezzaluna impressa sulla fronte (come non pensare alla queerness delle guerriere Sailor Starlights?) e con tutto il pantheon delle divinità egizie: Anubi (con la testa di cane), Bubasti (con la testa di gatto), Api (il bue dal manto bicolore), Horus (un bimbo con il dito in bocca) e naturalmente Osiride (marito di Iside), una divina compagnia che più variegata non si può.
La dea impone a Teletusa di non obbedire al marito e le promette aiuto per il nascituro, maschio o – più probabilmente – femmina che sia. Poco dopo, il parto avviene e Teletusa dà alla luce una bimba, comunicando a Ligdo di avergli invece generato un figlio, a cui viene imposto il nome di Ifi, in onore del nonno, ma – precisa Ovidio con scrupolo grammaticale – tale nome era adatto anche a una femmina. Questa Lady Oscar dell’antichità minoica crescerà come un maschio.
Il padre, sempre all’oscuro della finzione, organizza persino un matrimonio, con la fanciulla Iante, compagna di scuola, quando entrambe hanno appena tredici anni. Ciò non impedisce che l’amore scocchi tra i due, anzi tra le due, anche in Ifi, che, pur sperimentando su di sé ogni giorno il travestimento, si innamora, ricambiato/a, di Iante, che nulla sa (di nuovo il sapere di Tiresia, il non sapere dei profani). L’equivoco consente a Ovidio uno sfoggio di figure retoriche e giochi di parole: «una eguale (aequum) ferita […] ma un’impari (dispar) sicurezza» (Metamorfosi, IX, vv. 720-21); «e quella che si riteneva un uomo, da uomo si comportasse» (quamque virum putat esse, virum fore: v. 723); «e una vergine brucia d’amore per un’altra vergine» (ardetque in virgine virgo: v. 725). La lingua latina si impenna per significare questo amore esorbitante, forza generi e plasma costrutti, si serve liberamente del maschile e del femminile, a seconda delle necessità narrative, senza pretendere di aver prima accertato presunti cambiamenti biologici. Ovidio non ha bisogno di una legge ad hoc per definire Ifi «un ragazzo». Ciò non gli impedisce di attribuire al sentimento del giovane transessuale aggettivi legati al concetto di prodigio, di eccesso, fino a esprimere, in versi che faranno scuola (731-34), tutto il peso di una norma di cui ci si sente una pericolosa deviazione (de more):
l’amore non fa ardere una mucca per un’altra mucca, né una cavalla per un’altra cavalla;
è l’ariete ad amare le pecore, è il cervo ad attrarre le femmine della sua specie;
così si accoppiano anche gli uccelli, e tra tutti gli animali
nessuna femmina è soggiogata dal desiderio per un’altra femmina.
Come a colloquio con uno specialista, Ifi dà sfogo all’ingiustizia di provare una passione a cui non può sfuggire (gli dèi l’hanno fatta sorgere) ma allo stesso tempo diversa dai comportamenti comuni degli animali. Eppure ci sono state delle eccezioni, come appunto quella di Pasifae (e almeno – commenta amaramente Ifi – era una donna innamorata di un toro e c’era un architetto come Dedalo capace di assecondarla).
Qui invece la tecnica, la scienza sono disarmate, anche se Ifi capisce che l’unico modo per rendere la relazione accettabile è di cambiare sesso, diventare a tutti gli effetti un puer: nessuno avrebbe tollerato un matrimonio lesbico, visto che nella società antica le donne scontavano discriminazioni ancora maggiori se omosessuali. La realtà, il dovere negano l’amore di Ifi, tanto che forse è consigliabile rinunciarvi, a costo di soffrirne. Il colmo è che, grazie alla finzione materna, nessuno si oppone in apparenza alle nozze: tutti le incoraggiano, le famiglie, i padri, ma al posto dello sposo e della sposa ci saranno due spose.
Il giorno del matrimonio, più volte rinviato con varie scuse da Teletusa, giunge infine; non resta che invocare di nuovo Iside, che tredici anni prima aveva garantito protezione alla fanciulla-fanciullo (e che nel II secolo d.C. avrebbe matrocinato Le metamorfosi di Apuleio). È Teletusa a riprendere in mano le redini della faccenda e ricordare alla divinità quel che aveva rischiato dell’armonia familiare per soddisfare il suo comando: una madre coraggio che invoca la Gran Madre per antonomasia, quella Iside che nell’età ellenistica veniva identificata con Cibele e che avrebbe fornito al cristianesimo un appoggio classico per il culto mariano. La dea, che protegge il delta del Nilo con le fenditure dei suoi rami, dovrebbe intervenire a sanare le ferite della famiglia: cosa che puntualmente avviene. L’altare e il tempio isiaco tremano, brillano i corni della luna («al tuo cuore si arriva con la verità / bianca come la luna nell’oscurità», cantava una delle sigle di Sailor Moon), si sente il suono trascinante del sistro, mentre Teletusa e Ifi si avviano serenamente verso casa. Qualcosa in Ifi è cambiato: l’andatura si è fatta più veloce, il volto è diventato olivastro (segno di una vita trascorsa all’aperto) e paffuto, lo sguardo più duro, i capelli corti, in un trionfo di vigore orgogliosamente virile. Insomma, Ifi non è più femina ma puer, come si affretta a incidere su un’iscrizione di ex voto. Così, al sorgere del nuovo giorno, si celebrano finalmente legittime nozze: il Sole illumina ciò che non è più necessario nascondere nelle notti senza Luna. E chissà chi ha avuto il compito di riferire il tutto a Iante e Ligdo…
In questo lungo racconto Ovidio affronta già i punti cardine di un dibattito che soltanto dopo circa duemila anni troverà apposita terminologia: il dissidio tra biologia (natura o res) e aspettative sociali, e fra norma e «trasformazione»; l’autonomia dell’identità di genere dall’orientamento sessuale (Ifi ama Iante sia prima sia dopo la «trasformazione»); la performatività del genere (Ifi prima si abbiglia e si muove come una ragazza, quindi acquista vesti, acconciatura e modi tipicamente maschili).
Sulla scia ovidiana, anche un poeta gay secentesco estromesso dalla storiografia letteraria tradizionale, Giovan Battista Marino, immaginerà un’opera, poi lasciata da parte, intitolata Trasformazioni. Doveva essere un poema cosmogonico dedicato a come l’arte e la natura condizionano tutti gli esseri, viventi e minerali, e con protagonisti Ercole, Alessandro Magno, Giulio Cesare e Cristoforo Colombo. La parola Trasformazioni è la versione latino-italiana (da trans + forma), narrativa e vitalistica, delle Metamorfosi di Ovidio, che Marino – secondo le ipotesi di padre Pozzi – avrebbe voluto riscrivere, contaminandole con Le dionisiache di Nonno di Panopoli, diversamente da come aveva fatto nell’Adone (in cui peraltro non mancano relazioni omosessuali, travestimenti, queerness). Il solo titolo, dunque, basta a spiegare che Marino interpretava come cifra della modernità quelle «trasformazioni» così brillantemente descritte nelle Metamorfosi e che ci indicano la strada per una comprensione, libera dai pregiudizi, del presente, del «mondo in nove forme trasformato». Nove che è come dire, oggi, centomila, infinite o il più che segue Lgbtqia+.
[Leggi il primo articolo , su Tiresia, e il terzo, su Zinevra-Sicurano.]