Trans-letteratura #1: Tiresia

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I miti antichi, le novelle, i poemi non smettono di sorprenderci per la loro possibile coniugazione al presente: esaminiamo alcuni personaggi che hanno in vario modo vissuto la transessualità, a partire dall’indovino Tiresia, uomo, donna e poi ancora uomo.

Introduzione: prefissi definitori ed ermafroditi

Iscrivendosi a social network e altro di matrice anglosassone ci si imbatte nella possibilità di definire la propria identità di genere, il proprio orientamento sessuale, il proprio sesso biologico, tutte espressioni di recente conio che tuttavia rivelano bisogni preesistenti alla corrispondente tassonomia. Un nuovo significato hanno così assunto quei prefissi essenzialmente geografici che si incontrano nello studio della storia romana e poi napoleonica: dalla Gallia Cisalpina e Transalpina o dalla Repubblica Cispadana e Transpadana, i latini cis– e trans-, in opposizione fra loro, sono passati a designare l’identità di genere. Cisgenere è colui o colei che si riconosce nel genere attribuitogli/le o nel proprio sesso; transgenere è colui o colei che invece non si riconosce nel genere attribuitogli/le né nel proprio sesso e può dunque richiedere l’aggiornamento anagrafico (a prescindere dal tipo di percorso che si voglia intraprendere per farlo). Si tratta di definizioni complicate dal concetto di genere e di sesso (più o meno legati alla sfera culturale o biologica e usati in italiano talvolta come sinonimi) e alle quali va aggiunto un terzo prefisso, inter-: intersessuale è infatti la persona che possiede, alla nascita, caratteri sia maschili sia femminili.

Se volessimo cercare nella letteratura classica traccia di queste considerazioni, ci imbatteremmo in diversi personaggi che le hanno realizzate in sé. Ovviamente gli antichi non erano così precisi dal punto di vista terminologico, ma già avevano intuito tutte queste possibilità, rimanendo comunque ancorati al piano sessuale-biologico (l’oscillazione di genere è semmai realizzata attraverso travestimenti, trucchi, maschere). In questo percorso, in quattro tappe, ci concentreremo su altrettanti personaggi transessuali della letteratura antica e moderna.

L’intersessualità era invece rispecchiata nella figura di Ermafrodito; questi si innamorò così tanto, ricambiato con la medesima se non superiore intensità, della ninfa Salmaci, che gli dèi ne fecero un’unica creatura, cambiando membra, aspetto, voce, proprio come negli interventi ormonali e chirurgici di oggi: «non si poteva dire se fosse femmina o fanciullo, non assomigliando né all’una né all’altro ma sì a entrambi» (Ovidio, Metamorfosi, IV, vv. 328-29). Inoltre, chiunque berrà dall’acqua della fonte in cui Ermafrodito con Salmaci è diventato ermafrodito, subirà la stessa trasformazione.

In questa prospettiva di amplesso-fusione Dante fa dire ai lussuriosi da lui incontrati sul Purgatorio «nostro peccato fu ermafrodito» (Purgatorio, XXVI, v. 82): cioè sfrenatamente “eterosessuale” (per distinguerlo da quello dei vari tipi di sodomiti), proprio come il desiderio di Salmaci per Ermafrodito. L’ermafrodito è richiamato anche dall’essere androgino (uomo+donna) che Platone nel Simposio immagina all’origine dell’umanità insieme con gli altri esseri doppi: uomo+uomo (a cui il filosofo attribuisce la massima considerazione) e donna+donna. A un episodio simile si richiamano le statue semoventi e compenetrantisi dell’artista georgiana Tamara Kvesitdaze, ispirate alla storia d’amore contrastato della principessa cristiana Nino e del nobile musulmano Ali.

Il mito di Tiresia

Quello che si può considerare l’archetipo della transessualità occidentale è Tiresia.
Il racconto del transessuale Tiresia è inserito dal poeta latino Ovidio nel contesto di una disputa tra Giove e Giunone su chi, fra uomini e donne, provi maggior piacere nel sesso. La questione viene sottoposta all’indovino tebano in quanto esperto di entrambi e da questa constatazione inizia il racconto del suo passaggio di genere, letteralmente, per un colpo di bacchetta, anzi di bastone. Siamo nel terzo libro delle Metamorfosi: Tiresia, in un bosco, inciampa nell’accoppiamento tra due serpenti e, per una sua malizia moralistica, lo interrompe. È trasformato all’istante in donna e tale rimane per sette anni. All’ottavo, assiste alla stessa scena e questa volta, memore dell’esperienza precedente, colpisce i due rettili avvinghiati confidando nell’esito opposto. Detto fatto, riacquista forma e imago originarie (v. 331).
Il racconto occupa pochi versi e poi ritorna sulla questione del piacere, dando ragione a Giove, per il quale le donne godrebbero di più. La dea Giunone, per tutta risposta, si vendica (aveva evidentemente preso il responso per l’ennesimo oltraggio misogino), condannando Tiresia alla cecità; Giove interviene allora non per annullare l’azione della moglie, ma per controbilanciarla e fa di Tiresia un indovino. In questa veste di transessuale non vedente ma preveggente Tiresia, ormai canuto, sforna i più implacabili vaticini: prevede la triste fine di Narciso; è consultato da Odisseo nell’Odissea, unico morto ad aver conservato intatta la propria razionalità; profetizza lo sbranamento di Penteo, che irride la sua cecità come una sciagura; indica a Edipo l’origine dei mali di Tebe e, sempre a Tebe, sarà da lui maltrattato, per poi rispecchiarne la condizione (Edipo, riconosciutosi colpevole, si accecherà); ha infine un ruolo importante come negromante nella guerra tra Eteocle e Polinice cantata da Stazio nella Tebaide.

 

Pietro della Vecchia, La metamorfosi di Tiresia in donna, XVII sec., olio su tela (Nantes, Musée des Beaux Arts).

 

Nei racconti, il ruolo di Tiresia come indovino, spesso apostrofato in malo modo dagli interlocutori che pure necessitano dei suoi responsi, prevale sulla sua storia passata di transessualità. Eppure Tiresia si appoggia con coraggio alla propria conoscenza, anche se dolorosa, come quando a un Edipo incredulo rinfaccia di poter contare sulla «forza della verità» (Sofocle, Edipo re, v. 356). Il dono che gli dèi gli hanno concesso non sembra dunque solo la possibilità di attingere a conoscenze misteriose e inaccessibili, che possono apparire persino intermittenti e fallaci ai profani e ai miscredenti; Tiresia, in forza del proprio duplice passaggio di genere, ha sperimentato il nucleo essenziale dell’identità umana, ha varcato quella soglia che il Dio biblico aveva precluso a Eva e Adamo: «Puoi mangiare il frutto di qualsiasi albero del giardino, ma non quello dell’albero che infonde la conoscenza di tutto. Se ne mangerai sarai destinato a morire!» (Genesi II, 16-17). Assaggiati i suoi frutti, i disobbedienti Adamo ed Eva avvertono anche loro una diversa percezione del proprio corpo: certo non cambiano sesso, per carità, ma lo scoprono per la prima volta e si foderano le nudità con le celebri foglie di fico. Anche l’altra versione eziologica della cecità di Tiresia, presentata da Callimaco come conseguenza della «visione proibita» della dea Atena al bagno, pone la nudità all’origine della punizione divina. La «conoscenza di tutto» ha un prezzo e come un fuoco ardente non lascia indenni; avendola sperimentata, Tiresia deve sacrificare una parte materiale di sé. Imparare, apprendere è soffrire, secondo un antico adagio greco.

La cecità e la transessualità di Tiresia non si traducono in infecondità (come la domanda di Zeus aveva lasciato intendere). L’indovino ha infatti una figlia, Manto, indovina come lui e, cacciata da Tebe, destinata a mille peregrinazioni, finché si recherà in Italia e, secondo una tradizione accolta da Dante, si rifugerà, isolata, nella sede della futura Mantova, patria di Virgilio. Dante pellegrino incontra padre e figlia nella quarta bolgia dell’ottavo cerchio dell’Inferno, dove gli indovini e le indovine sono punite con una rotazione corporale: la testa è retroversa, i capelli coprono il petto e l’addome anziché la schiena. Il dannato Tiresia è ricordato come colui che «mutò sembiante / quando di maschio femmina divenne, / cangiandosi le membra tutte quante» (Inferno, XX, vv. 40-42); Manto è vista in tutta la sua impressionante torsione (i capelli sciolti, come si riteneva portassero le streghe, sui seni nudi) e Virgilio commosso ricorda che Mantova era sorta nel luogo della sua tomba, invitando il discepolo a non credere a racconti diversi da quello. Il nome di Manto quale «figlia di Tiresia» (l’unica nota a Dante) ritorna nel Purgatorio, dove si ricorda la sua presenza nel Limbo (XXII, v. 113), ma si tratterà di una svista (o di un lapsus?) del poeta.

 

Maestro della Commedia Yates Thompson, Dante e Virgilio nella bolgia degli indovini (Inferno XX), miniatura del manoscritto Yates Thompson 36, foglio 35v (Londra, The British Library).

 

Proprio appellandosi all’antica sapienza di Tiresia, transessuale e indovino, la poetessa contemporanea Giovanna Cristina Vivinetto ha così spiegato il cammino di transizione: «Quando nacqui mia madre / mi fece un dono antichissimo, il dono dell’indovino Tiresia: / mutare sesso una volta nella vita» (dalla raccolta Dolore minimo). Anche il suo io lirico approfondisce una conoscenza di sé che va oltre il «dono» più evidente e ambivalente, quello della preveggenza, per risalire al «mistero che non si può dire» incarnato dalla sua metamorfosi.

Oggi che il percorso di transizione, se affrontato anche dal punto di vista medico-chirurgico, oscilla tra la richiesta di una diagnosi e la declassificazione della «disforia di genere» dall’elenco dei disturbi psichiatrici (dal 2018, secondo l’Oms), evocare Tiresia significa anzitutto illustrare la potenza della sua mente razionale, quella che Omero assicura intatta anche dopo la morte. Lungi dall’essere frutto di un colpo di magia, la trasformazione è una strada complessa, che richiede tempo e sacrifici. Circe aveva raccomandato a Odisseo di immolare al solo Tiresia, nell’Ade, un montone tutto nero, il migliore del gregge (Odissea, X, vv. 524-25); abbeveratosi del suo sangue scuro, con ancora in mano lo scettro distintivo del suo ruolo sacerdotale, Tiresia profetizza a Odisseo il suo futuro di viaggiatore che, dopo il ritorno a Itaca, non si fermerà, ma si imbarcherà di nuovo per terre sconosciute. Ben consapevole di sé e della propria forma, Tiresia continua a illuminare gli altri, a diffondere verità, a patrocinare itinerari di conoscenza. Dal pozzo della sua sapienza non smettiamo di attingere doni.

[Leggi il secondo articolo, su Ifi, il terzo, su Zinevra-Sicurano, e il quarto, su Ricciardetto e Fiordispina.]

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Johnny L. Bertolio

Si è diplomato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e ha conseguito il PhD alla University of Toronto, dove ha maturato una variegata esperienza nella didattica dell’italiano. Attualmente collabora con Loescher come autore e redattore nell’ambito umanistico.

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