Lo ammetto, non avevo mai letto nulla di Abate, e questo libro è stato davvero una bella sorpresa. Nato a Carfizzi, un paese arbëresh (cioè italo-albanese) vicino a Crotone, lo scrittore ha vissuto l’emigrazione familiare in Germania e ora – tornato in Italia – vive e insegna in Trentino, proprio come uno dei personaggi del suo romanzo che ho appena citato. Romanzo che manifesta pertanto l’attaccamento forte alla propria terra, la Calabria, tipico di chi l’ha dovuta lasciare; e che si esprime in un tono tra l’epos e l’elegia, a ricordarci che nelle vene di Abate scorre virtualmente un sangue “magno-greco”: narrazione della storia (macro-storia e micro-storia) e dolore sono infatti tanto connessi da apparire una cosa sola, come sovente accade nella letteratura greca classica. Questo lo sanno bene le tre generazioni della famiglia Arcuri, al centro della vicenda, proprietaria di una porzione di collina (il Rossarco) vanamente contesa ai suoi membri prima dal podestà locale e poi dagli speculatori edilizi: ma che dolore, che sofferenza, “resistere” a queste continue aggressioni! E proprio qui, sul Rossarco, gli Arcuri hanno vissuto le due guerre mondiali, hanno visto morire e nascere i loro membri, e hanno appreso – ma già certo lo sapevano, in quanto lavoratori della terra…– quanto possa essere dura, perfino violenta la Storia con la S maiuscola. Hanno però in quel luogo (comunque non descritto come un locus amoenus) anche goduto degli affetti familiari, dei frutti delle loro fatiche agricole, del profumo del mare e della macchia mediterranea, e della “compagnia” del vento, protagonista aggiunto del romanzo: un vento che parla, forse pensa, proprio come se fosse un uomo.
Mi si potrebbe obiettare: che c’entrano con tutto ciò l’archeologia e la storia classica? C’entrano, perché nella fiction romanzesca si innestano le figure di due grandi archeologi, tra i maggiori del secolo scorso: Paolo Orsi (1859-1935) e Umberto Zanotti Bianco (1889-1963), alla ricerca, proprio alla falde del Rossarco, delle vestigia della antica città di Krimisa, che la leggenda vuole sia stata fondata dall’eroe greco Filottete di ritorno da Troia.
Non è la sede, questa, per raccontare come Orsi e Zanotti si relazionino “letterariamente” con gli Arcuri. È però la sede per ricordare come la ricerca di questo sito – ubicato probabilmente presso Punta Alice, vicino all’attuale Cirò Marina – abbia davvero impegnato i due archeologi, a principiare da Orsi che in quell’area scavò tra il 1924 e il 1929. E che queste ricerche abbiano dato luogo a ritrovamenti relativi al celebre tempio di Apollo Aleo, oggi visibili “in ordine sparso” nei Musei di Cirò Marina, Crotone, e Reggio Calabria: sì proprio il “Museo Nazionale della Magna Grecia”, famoso – o famigerato ? – per i celeberrimi “Bronzi di Riace” (in restauro ab immemorabili e almeno fino al 2014). È qui, infatti, che si trova una stupenda testa marmorea di Apollo (detta “acrolito di Cirò”, di influsso fidiaco) che è dei reperti di Krimisa il più noto e affascinante: varrà comunque la pena, per saperne di più, dare un’occhiata alla pagina del sito web del Museo che parla di questa e degli altri oggetti trovati in loco.
Qui mi fermo, perché, come ho già detto, non sono uno studioso di antichità magno-greche. Sono però un docente di Lettere, e come tale suggerisco ai miei colleghi la lettura in classe di questo romanzo, che è un eccellente modo – ad esempio in un biennio liceale – di affrontare un bel testo narrativo che si “interfaccia” con il programma di storia classica e che stimola l’attenzione verso la tutela dei Beni Culturali. Ma anche in un Triennio (perché no?) dato che gli orrori del “secolo breve” si mescolano costantemente con le suggestione del “tempo senza tempo” della classicità: una suggestione antica, che talora lenisce il dolore e mitiga l’inciviltà propria – direbbe Salvatore Quasimodo – dell’uomo del mio tempo.
E poi, mi si scusi l’addendum personale, sono stato allievo del grande archeologo Pietro Orlandini, dell’Università degli Studi di Milano, che in Magna Grecia ha scavato una vita, anche in zone molto vicine a quelle di cui si è detto: è da lui che ho sentito nominare per la prima volta Paolo Orsi e Umberto Zanotti Bianco. Ricordo ancora l’emozione del professor Orlandini quando parlava di loro: dunque, che fossero grandi studiosi io – pur giovane “matricola” – l’avevo capito già allora; non sapevo invece quello che ho appreso dopo, e che traspare pure nel libro di Abate: che fossero anche personaggi di primo piano del loro tempo. Orsi infatti, uomo del post-Risorgimento, divenne in età matura senatore del Regno, ma visse sempre in modo austero, schivo, affrontando il suo mestiere con uno spirito quasi “religioso”. E Zanotti nel 1952 fu anch’egli creato senatore a vita, dopo un’esistenza divisa tra archeologia e lotta per la libertà: era infatti stato fervente antifascista, tra i pochi a rifiutare il giuramento di fedeltà che il Regime aveva chiesto ai docenti universitari, e per questo aveva anche subito il carcere.
Letteratura, archeologia, storia antica e recente, passione civile… Credo che ce ne sia abbastanza per ribadire quello che ho già scritto sopra, e cioè che libri come La collina del vento non possono stare lontano dalle nostre scuole: sono – scusate il gioco di parole…– come un “vento fresco” che ci ristora l’animo nei tempi grigi che stiamo attraversando, e noi e i nostri studenti abbiamo pertanto il dovere morale di goderne.