Tra fare bene, stare bene e fare meglio

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Prospettive tra passato, futuro e utopia reale alla secondaria di primo grado: dall’esperienza degli ultimi anni al diritto-dovere al futuro.

9 giugno 2021, mancano pochi minuti al suono della campana: è l’ultimo giorno di scuola del secondo anno dell’era COVID. L’anno prima nemmeno c’era stato, l’ultimo giorno: gli edifici scolastici restavano chiusi, le lezioni si erano chiuse a distanza. Per quanto mi sforzi, non riesco a ricordare come sia finito l’anno scolastico 2019/20 e qualcosa vorrà pur dire: i giorni della DAD e della reclusione forzata sono avvolti nella nebbia, un periodo di limbo che la mia mente non dico abbia rimosso, ma ha certamente chiuso in un cassetto.

ore 13, suona la campana: il silenzio è spettrale, nessun conto alla rovescia, nessun gavettone. I ragazzi si alzano, infilano la cartella e se ne escono salutando, nessun urlo di gioia, nessuno slancio verso l’estate. Io, questa cosa, non la dimenticherò mai: è stata una fine dell’anno in cui i corpi sono rimasti muti.
Eppure, solo pochi giorni prima avevo avuto una percezione diversa: la nostra scuola è ubicata in un parco, quindi, complice la possibilità di fare uscite sul territorio, avevamo organizzato diverse mattinate nel bosco. Alla prima uscita, dopo una passeggiata in cui eravamo rimasti rigorosamente distanziati, tra mascherine e bolle, arriviamo in uno spiazzo: con i preadolescenti questo solitamente significa vederli sedere sul muretto a chiacchierare, perché per terra ci si sporca, ci sono le formiche, l’erba è bagnata ecc. Appena arrivati in prossimità del prato, cinquanta ragazze e ragazzi, iniziano a correre: una corsa sfrenata fino in fondo, una corsa spontanea, una corsa composta e libera: la vita e il corpo sembrano riprendere i propri spazi, è stato come quando apri una lattina dopo averla scossa. Arrivati in fondo, si bloccano, come liberi da un incantesimo: alcuni si mettono a giocare a calcio, altri a pallavolo, altri a nascondino, altri ad acchiapparella. Come se il tempo fosse ripartito da un anno prima, dal primo giorno della prima. Eppure solo pochi giorni dopo, al suono della campanella che avrebbe sancito la fine, non c’è stato posto per la ritualità festante e guascona che da sempre accompagna l’inizio dell’estate.

9 giugno 2022: l’aria è un po’ diversa, il COVID c’è ma fa meno paura o semplicemente abbiamo imparato a conviverci o ancora, meno prosaicamente, ce ne siamo fatti una ragione. La mia è una classe che ha attraversato la secondaria di primo grado in pandemia, non ha sperimentato nulla di quello che era la nostra scuola “prima”: non esiste più il “compagno di banco”, una possibilità venuta meno in nome dei banchi distanziati, da non muovere per nessun motivo. Consapevoli di ciò, una volta allentate le misure di contenimento, abbiamo deciso di provare a rimettere in circolo alcuni principi che hanno sempre caratterizzato il nostro istituto: ascoltare, progettare e condividere. Ne sono usciti: la serata danzante nel parco per le terze (“pic-nic sotto le stelle”), il saluto finale alle famiglie, le visite di istruzione, i tornei dell’ultima settimana, la sfilata delle celebrità, la gara di lettura. La scuola ha iniziato a rianimarsi, a vivere quello che c’è oltre al perimetro dell’aula, e i ragazzi hanno avuto parte attiva in tutto questo: hanno proposto eventi e li hanno organizzati, con l’aiuto dei docenti e dei genitori.
Grazie a questi momenti si sono ripresi gli spazi e li hanno occupati con il corpo, aspetto che in questi pesantissimi anni di COVID era completamente saltato: abbiamo avuto protocolli, continue revisioni, riorganizzazione di abitudini e spazi, ma i ragazzi e le ragazze sono sempre rimasti al margine di qualunque decisione, le hanno subite e non hanno mai avuto alcun margine di contrattazione (e non avrebbe potuto essere altrimenti). Il corpo è stato messo da parte, frenato e così pure l’esperienza dell’incontro con la fisicità dell’altro: io credo che da qui si debba ripartire, senza però fare tabula rasa e rimuovere quanto vissuto.

ore 13, suona la campana: applausi, canzoni e conto alla rovescia, dal cortile non se ne vogliono andare. «È estate, prof! È davvero estate! Non mi sembra vero». Non sembra vero nemmeno a me.

Ricominciare da ieri

Una famosa frase di Alessandro Manzoni recita: «Si dovrebbe pensare più a far bene che a stare bene: e così si finirebbe anche a stare meglio». Ci ho pensato molto in questi ultimi anni, credo che i tre fare siano profondamente connessi e ci riguardino tutti.
L’errore più grande che possiamo fare adesso è dividere il mondo in pre-COVID, momento in cui tutto funzionava, eravamo felici e la scuola non aveva problemi, e post-COVID, in cui tutto è in discussione, nulla funziona e i ragazzi stanno male. La realtà, come sempre, è più complessa, e questa tragedia, questo trauma, non ha fatto altro se non rendere manifeste le difficoltà e acuire alcuni problemi. La buona notizia è che ora che è tutto sotto gli occhi di tutti, possiamo correre ai ripari, possiamo costruire: la scuola è nella società, non è un mondo a parte, e deve avere il coraggio di occupare il ruolo che le spetta. Altrimenti dire che la “scuola costruisce cittadini” è ripetere uno slogan vuoto e falso, buono per circolari ministeriali e open day.

Il corpo costretto in quindici pollici

Durante la preadolescenza l’azione è ciò che conta: «i ragazzi e le ragazze, reduci da un lunghissimo periodo di addestramento protetto, ora per la prima volta affrontano la realtà da soli. È finita l’infanzia in cui mamma e papà decidevano tutto: vestiti, gite, amici, programma della festa di compleanno»2.

Con la scuola secondaria di secondo grado si passa da uno stile educativo tipico dell’infanzia che, pur promuovendo l’autonomia, ha come priorità l’accompagnamento e la protezione, a uno in cui si riconosce e si accetta che il ragazzo sia in grado di muoversi autonomamente: tornare a casa da soli, scegliere il compagno di banco, i quaderni da usare (alla primaria, a copertina scelta dai docenti corrisponde materia), decidere se partecipare o meno a un progetto opzionale, a una festa, a un evento, sono tutte tappe necessarie alla crescita. I genitori e gli adulti in generale non guidano più gli interessi, le passioni e le scelte di quelli che Sofia Bignamini chiama mutanti3; gli amici diventano la nuova famiglia, le relazioni sono sempre più autonome dalla gestione dei genitori, le esperienze fuori da casa diventano fondamentali, mentre tra le mura domestiche iniziano ad alzare barriere e a rivendicare i propri spazi, dal bagno alla cameretta. La preadolescenza è il primo periodo della vita in cui compare la spinta alla trasgressione, che si traduce in ridefinizione e discussione dei valori introiettati durante l’infanzia e, paradossalmente, ha bisogno ancora di più della presenza di adulti autorevoli con cui incontrarsi e scontrarsi.

Dal 5 marzo 2020 questo processo naturale è stato bloccato: i ragazzi (e noi con loro) sono rimasti chiusi in quindici pollici, le loro relazioni si sono spostate tutte sul piano digitale e il corpo è stato messo da parte, spento, limitato nei movimenti, spesso gonfiato con cibo spazzatura e privato di una sana alternanza sonno-veglia.

I ragazzi non erano certo digiuni da relazioni digitali, ne erano già immersi4, ma nessuno avrebbe mai immaginato che sarebbero state le uniche possibili e che, pronti a muoversi nel mondo di fuori, sarebbero stati costretti a stare chiusi tra le mura di casa, come quando erano piccoli. Solo che non erano più bambini, il mondo intorno a loro perdeva i propri punti di riferimento e gli adulti avevano paura.

Dal mio osservatorio su una scuola di 600 ragazzi, ho visto sì l’aumentare di disturbi del sonno e dell’alimentazione, ma ho costatato che tutti i ragazzi hanno faticato a riprendere la routine scolastica; se è vero che da un lato la DAD li aveva angosciati, dall’altro li aveva rassicurati e protetti: il mondo fuori si era fatto ostile e pauroso e la scuola che si ritrovavano ora non era più quella che avevano imparato a conoscere, quella dell’incontro, dei lavori di gruppo, dell’intervallo insieme. Andare a scuola era certamente meglio che stare chiusi in casa, ma la scuola che si trovavano a vivere si è trasformata in un compromesso difficile da accettare, l’adagio “piuttosto che niente, meglio piuttosto” decisamente non funziona in adolescenza: paradossalmente, eravamo riusciti a lavorare in modo cooperativo più a distanza, tramite le stanze in piattaforma, che in classe, dove il distanziamento, le mascherine, l’impossibilità di variare il setting ci hanno catapultati nella scuola di primo Novecento. Noi docenti non siamo sempre stati all’altezza, troppo spesso abbiamo evitato di chiederci a chi, perché e come avremmo dovuto insegnare in questo nuovo contesto, restando ancorati a un prima al quale disperatamente saremmo voluti tornare. Ad esempio, nella battaglia ingaggiata per telecamere accese o spente, con gli adulti di frequente a interpretarlo come desiderio di sottrarsi a un dovere insindacabile, non sempre abbiamo valutato cosa possa significare per un preadolescente guardarsi costantemente in faccia, avere la propria immagine (che vuol dire anche brufoli, capelli che non stanno in forma, nasi troppo grandi, occhi piccoli e chi più ne ha più ne metta) sempre davanti. Tenere questo in debita considerazione avrebbe permesso di fare scelte diverse anche nel chiedere o meno un contatto visivo, che era certamente importante. Non dobbiamo dimenticarlo mai che cambiare il setting educativo implica cambiare anche come si apprende e cosa si apprende: in questo caso poi il setting non è stato scelto, ma imposto.

L’anno che verrà dovrà e potrà essere quello in cui ci riapproprieremo di modalità che ben funzionavano prima e le coniugheremo con quello che abbiamo imparato in questi due anni.
Ma non basta.

Fare bene e stare bene

Che cosa fare in questo mondo diverso che porta con sé ancora tante tensioni? Come possiamo stare bene a scuola? Come possiamo fare bene? Come possiamo stare meglio?
Un obiettivo deve essere valorizzare la partecipazione attiva e il protagonismo dei ragazzi: adulti e studenti non solo passano da scuola, ma devono abitarla e costruirla.
Sono necessari spazi di progettazione e condivisione: un’esperienza piccola e virtuosa in questo senso si è rivelata quella del Consiglio Comunale dei Ragazzi e delle Ragazze5, non solo per l’evidente esperienza di educazione civica, ma anche perché esso comporta fare delle proposte, accettare la mediazione con docenti e dirigente, pianificare la sua realizzazione e monitorarla.

Per realizzare la festa finale6, ad esempio, non solo hanno pensato al tema, alla locandina, alla musica e al luogo, ma hanno potuto sperimentare cosa significhi nel concreto organizzare una serata per cinquanta ragazzi: fare una pianificazione dei costi e trovare come coprirli. Se la festa fosse stata organizzata solo dai docenti, avrebbe richiesto meno ore di progettazione, invece la costruzione partecipata dell’evento suddivisa tra studenti, docenti e genitori ha significato ore e ore di tavoli di lavoro, anche online, ma è stato un esempio concreto di “abitare la scuola”.

Va certamente valorizzata la cultura della collaborazione e condivisione, la produzione di contenuti digitali e non, in un processo creativo che è sia individuale sia collettivo e che si concretizza, ad esempio, nel permettere ai ragazzi di trasformare in altro linguaggio anche il sapere tradizionale, dopo averlo affrontato, discusso e compreso.
Una grande occasione di questi due anni è stata quella di poter insegnare ai ragazzi l’utilizzo delle tecnologie digitali per l’apprendimento. Se, infatti, le potenzialità relazionali, comunicative e ludiche sono ben chiare ed evidenti, un uso per l’apprendimento non è così immediato: per noi docenti significa sia conoscere come funziona una mente digitale, sia il mondo digitale, che non è e non coincide solo con il mondo dei social network.

Valorizzare la cultura della collaborazione significa però rendere le nostre ore di lezioni palestre di collaborazione in cui nessuno studente si senta mortificato, zittito e senza diritto di parola: insegnare italiano, ad esempio, è per me l’occasione per sperimentare la forza di una comunità ermeneutica in cui ciascuno prende la parola, propone interpretazioni, le confronta e mette alla prova, ma significa anche insegnare a scrivere con tempi distesi e sostenibili, adatti a ciascuno. L’inclusione non si concretizza, infatti, soltanto in misure compensative, certificazioni, strategie, non è un adempimento burocratico, è una visione del mondo, una strategia pedagogica (e di vita): vuol dire lavorare e progettare perché diventi invisibile, in quanto prassi quotidiana, azione comune, opportunità per tutti.

Sarebbe auspicabile aumentare le professionalità all’interno dei team scolastici; se vogliamo che la scuola stia nella società abbiamo bisogno di altre figure che studiano e si confrontano su di essa: il dibattito sulla scuola non può essere sempre e solo esterno, è bene che sia concreto e reale e nasca in ogni singolo plesso e realtà.

La figura dello psicologo scolastico e degli educatori è quanto mai necessaria e non solo per le realtà di disagio: penso a sportelli di ascolto ma anche a veri e propri interventi di osservazione in classe, di supporto ai consigli di classe, di coordinamento di équipe. Non immagino figure esterne che una tantum si inseriscono a scuola, qualche mese o qualche progetto, ma professionisti che facciano parte dell’organico della scuola, che lavorino insieme ai docenti in ogni fase della vita scolastica. In tal senso anche il consiglio di classe dovrebbe mutare la sua fisionomia, e trasformarsi in tavoli frequenti di discussione, progettazione e studio di casi. Viviamo in una realtà sempre più complessa e multiforme, in cui il narcisismo e l’individualismo hanno spesso il sopravvento: la sfida è riappropriarci della collettività, parte importante del nostro essere umani.

Tutti questi discorsi che sto facendo e che paiono utopici devono però essere accompagnati da una discussione seria sulla funzione della scuola, e da conseguenti adeguamenti del contratto. Le nozze coi fichi secchi non soddisfano mai nessuno.

Il futuro è un diritto (e un dovere)

La guerra, la crisi politica, economica e climatica, il COVID-19, la precarizzazione del lavoro spingono a non essere ottimisti, a farsi prendere dallo sconforto, ma sarebbe un errore cedere. Il futuro è un diritto di tutti e tutti abbiamo il dovere di costruirlo, portando in classe la complessità e le contraddizioni, creando costantemente occasioni per imparare, tenendo la mente aperta alle sollecitazioni che ci arrivano dagli studenti stessi. Noi adulti abbiamo il dovere di esserci, di continuare a ostinarci nell’insegnare anche a chi apparentemente rifiuta di imparare: portare loro argomenti complessi e sfidanti perché crediamo in questo dialogo, in questo incontro e scontro dialettico, perché crediamo nei ragazzi e nelle ragazze, non in modo acritico e fideistico, ma con la consapevolezza dell’enorme ricchezza data proprio dal loro essere altro da noi.

Abbiamo il dovere di orientare al futuro, che non significa dare tutte le risposte, dire cosa fare, cosa essere e cosa pensare, ma si concretizza nell’aiutare a riconoscere e a sviluppare le proprie attitudini, capacità e competenze per affrontare quello che ci aspetta.

E in ultimo, per orientare al futuro dobbiamo liberarci della comoda etichetta di “povertà educativa” ricondotta ai bambini e ai ragazzi: il comodo leitmotiv per cui non leggono, non comprendono, non sanno e via dicendo. Se esiste, una povertà educativa (e il sintagma non mi piace affatto), è quella della scuola che seleziona ed esclude, che non accoglie, che non lavora sistematicamente per abbattere le difficoltà, che ripiega su sé stessa, che si riduce a norme e burocrazia, che rinuncia al suo ruolo sociale.

Per chi vive nella scuola, il diritto al futuro significa anche (ri) costruire una scuola democratica in cui abitare.


NOTE

  1. A. Chambers, Confessioni del giovane Tidman, trad.it. B. Masini, Rizzoli, Milano 2015.
  2. A. Pellai, B. Tamborini, L’età dello Tsunami. Come sopravvivere a un figlio pre-adolescente, De Agostini, Milano 2017, p. 22. Sul tema si vedano anche U. Magnini, A.M. Venera, La preadolescenza. Il diritto di abitare la terra di mezzo, Franco Angeli, Milano 2009 e F. Mazzucchelli, La preadolescenza. Passaggio evolutivo da scoprire e da proteggere, Franco Angeli, Milano 2013.
  3. S. Bignamini, I mutanti. Come cambia un figlio preadolescente, Solferino, Milano 2018.
  4. «Esiste una caratteristica peculiare degli adolescenti odierni, che li distingue da quelli delle generazioni precedenti. Ancora prima di nascere, e nel momento in cui vengono al mondo, sono immersi in un ambiente virtuale: nascono social al di là delle loro intenzioni. […] I nati dal 1995 in poi sono cresciuti con uno smartphone in mano, sono su Instagram da quando sono alle medie e non hanno ricordo di un mondo senza internet», in M. Lancini e C. Giorgio, Bambini d’oro e adolescenti di cristallo. Quale proposta educativa? in AA.VV., Inclusione a 360 gradi. Equità e valorizzazione dei talenti, Pearson Academy, Milano 2019, pp.11-12.
  5. Si tratta di un organo rappresentativo consultivo creato sul modello del consiglio comunale degli adulti, eletto a suffragio universale da e tra bambini (se della primaria) o ragazzi (secondaria). Il suo compito è fare proposte al consiglio comunale ufficiale. Questo progetto, a cui avevamo aderito fin dalla sua nascita nel Comune di Como, non è più stato finanziato da qualche anno, ma il mio istituto, considerandone l’importanza, lo ha trasformato in qualcosa di diverso. Sul modello della secondaria di secondo grado, i rappresentanti degli studenti vengono eletti dopo un’accesa campagna elettorale e un confronto diretto tra i candidati, e hanno il compito di proporre progetti, di costruirli e renderli concreti insieme ai docenti
  6. Prima dell’era COVID avevamo inaugurato la festa finale delle classi terze: un momento di balli e giochi nel parco della nostra scuola. Dopo due anni senza relazione sociale, i ragazzi hanno proposto di fare le cose in grande: non solo musica ma anche una cena di gala, il momento dei saluti ai genitori, il lancio di buon auspicio del loro cappello di diploma. Per i compagni delle altre classi hanno invece organizzato la mattinata delle celebrità: l’ultimo giorno di scuola chi voleva poteva impersonare un personaggio famoso e partecipare alla sfilata.
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Linda Cavadini

è nata e vive a Como, ha insegnato per vent’anni alla scuola secondaria di primo grado e di recente è passata alla scuola secondaria di secondo grado, è redattrice del blog «La letteratura e noi» e fa parte di Italian Writing Teachers, comunità di pratica che studia e sviluppa l’insegnamento della lettura e della scrittura a scuola. È autrice, con Loretta de Martin e Agnese Pianigiani, del volume “Leggere, comprendere e condividere”, per la casa editrice Pearson, e di alcune pubblicazioni per l’editoria scolastica.

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