Una raccolta privata
Ciò perché questi preziosi oggetti sono proprietà privata e la famiglia Torlonia, che li ha accumulati nel tempo, è andata incontro a trascorsi non sempre sereni: molte delle lussuose dimore acquistate o fatte erigere a Roma e dintorni sono, tra l’altro, state demolite per ragioni urbanistiche o addirittura andate distrutte durante le due Guerre mondiali.
Parimenti, non sempre “idilliaci” (eufemistico, questo aggettivo, quando ci sono di mezzo i tribunali: ma non intendo parlarne in questa sede) sono stati i rapporti dei Torlonia con lo Stato Italiano, fino a quando nel 2016 il Ministro Dario Franceschini è riuscito a siglare con la Fondazione Torlonia un accordo che prevede una futura riapertura (in sede da destinarsi) di quel Museo Torlonia che il principe Alessandro aveva fondato nel 1875 ma che, come vedremo, aveva origini precedenti.
La mostra ai Musei Capitolini
Un sostanzioso “antipasto” di tutto ciò è esposto a Villa Caffarelli, nuova sezione espositiva dei Musei Capitolini, fino al 29 giugno 2021; si tratta di una selezione di ben 92 opere greco-romane, curata da Salvatore Settis e Carlo Gasparri e allestita dall’architetto David Chipperfield, intitolata I Marmi Torlonia. Collezionare capolavori. È il risultato di una proficua collaborazione tra il MiBACT (nello specifico per il Ministero, della Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio con la Soprintendenza Speciale di Roma), la Fondazione Torlonia, l’editore Electa (che ha pubblicato il catalogo), con un’importante sponsorizzazione da parte di Bvlgari, che ha contribuito anche al restauro dei pezzi.
Chi scrive, da anni ha con i marmi Torlonia una sorta di «amore di lontano», che ricorda un po’ quello cantato dal poeta provenzale Jaufre Rudel; amore, talvolta, condito da un po’ di rabbia perché qualche statua l’avrei voluta proprio vedere, oppure di qualche altra mi sarebbe servita (per una lezione o una pubblicazione) un’immagine diversa, magari di qualità migliore di quelle in circolazione.
Pertanto l’idea di poterne ammirare a breve almeno una buona parte mi aveva davvero galvanizzato: non sto quindi a indugiare sulla tristezza che mi provoca l’attuale chiusura della mostra per l’emergenza Covid-19, unita alla prospettiva che, anche in caso di riapertura contingentata, sarò impedito a visitarla dal rinnovato divieto degli spostamenti interregionali.
Non mi pareva però giusto passare sotto silenzio l’evento, anche perché la speranza (mia e di molti altri) è che l’esposizione possa essere prorogata fino a “tempi migliori”, e non c’è bisogno di spiegare cosa intenda con questa espressione.
Una famiglia di collezionisti
L’occasione mi consente allora – attraverso la lettura del poderoso, bellissimo, catalogo Electa che ho qui sulla scrivania (grazia al quale l’«amore di lontano» si è un po’ ravvicinato…) – qualche riflessione sulla genesi di questa raccolta e su qualche suo pezzo di particolare interesse.
Infatti le sezioni dell’esposizione cercano di ricostruire il percorso collezionistico di questa famiglia, e in particolare di Giovanni Raimondo Torlonia (1754–1829) e del figlio Alessandro (1800–1886), che nel 1875 (ormai a Italia fatta, Roma capitale compresa) fece confluire le statue classiche in un palazzo in Via della Lungara, dando origine “fisicamente” – come già abbiamo anticipato – a uno dei Musei più ricchi e meno visitati del mondo.
Un Museo di ben settantasette stanze, con tanto di catalogo illustrato, che vantò ben otto edizioni – di cui alcune in francese e inglese – stampate dal 1876 al 1885 a cura di Pietro Ercole Visconti e poi del nipote Carlo Ludovico.
Da borghesi a principi
«Principi» Torlonia, usiamo dire, ma questo titolo nobiliare Giovanni lo ottenne da papa Pio VII in virtù della sua prestigiosa posizione economica e della conseguente attività di beneficienza e mecenatismo. Sì, siamo davanti a una famiglia di origine – per così dire – “borghese”, arricchitasi con il commercio delle stoffe e soprattutto con la fondazione di una banca; una famiglia che in questo incerto contesto politico-sociale (Roma fu teatro di occupazione napoleonica, resistenze papaline, moti risorgimentali, fino a Porta Pia…) stava ormai sovrastando in prestigio e sostanze l’antica nobiltà locale.
Emuli dei Colonna, dei Barberini, degli Albani ecc., Giovanni e Alessandro investirono così in terreni e palazzi, e soprattutto vollero dare un segnale concreto, pubblico, della loro magnificenza collezionando opere d’arte, in particolare dipinti e sculture antiche.
Scavi e acquisizioni
Per queste ultime, il canale di approvvigionamento fu anche un’intensa attività di scavo nelle loro proprietà intorno a Roma: le tenute di Roma Vecchia e della Caffarella, le Ville dei Quintili, dei Sette Bassi e di Massenzio e altre notevoli aree archeologiche.
Furono però soprattutto le acquisizioni di intere importanti collezioni preesistenti a costituire il Museo privato dei Torlonia; in alcuni casi, inoltre, le antichità furono loro date da nobili decaduti come conguaglio di prestiti bancari, a documentare plasticamente il trionfo – avrebbe detto Dante – di «gente nova e subiti guadagni», che però vantava ormai titoli principeschi.
Di particolare rilievo l’acquisizione di due grandi nuclei formatisi nel secolo XVIII. Parlo in primo luogo dei marmi che, alla morte del celebre scultore Bartolomeo Cavaceppi (1716–1799), si trovavano nel suo studio in via del Babuino a Roma, comprati da Giovanni nel 1800.
In secondo luogo, delle raccolte di Villa Albani, acquistata “in toto” da Alessandro Torlonia nel 1866, nella quale il cardinale Alessandro Albani (1692–1779) aveva collocato – aiutato perfino dal grande Winckelmann – la sua straordinaria raccolta di statue antiche; tra l’altro alcune di esse erano state restaurate (“taroccate”?) proprio dal grande Cavaceppi, che in queste cose era insuperabile.
Che dire, poi, della collezione di antichità del marchese Vincenzo Giustiniani (secolo XVII), che Giovanni Torlonia acquisì nel 1816, ma che per varie vicende solo nel 1856-59 venne nelle mani del figlio Alessandro?
Insomma, potrei andare avanti ancora, ma qui mi fermo, per potere parlare rapidamente di qualcuna delle statue esposte in anteprima ai Capitolini.
Una selezione di capolavori
Da Vulci giunge un ritratto di fanciulla così moderno che qualcuno lo ritenne davvero tale, ma che è invece del I sec. a.C. Della stessa epoca è forse uno straordinario ritratto di vecchio, da Otricoli, che pare la quintessenza della gravitas dell’uomo romano.
Dalla collezione Giustiniani provengono alcuni pezzi da Novanta del Museo, a cominciare da numerose statue di divinità, come l’imponente Hestia Giustiniani (di quasi due metri), per giungere ai molti ritratti muliebri e virili (superbo lo pseudo-Eutidemo di Battriana), nonché al celeberrimo caprone la cui testa fu restaurata dal giovane Gian Lorenzo Bernini.
Ritratti (e non solo) anche dalle raccolte Cavaceppi (ad esempio quello di Giulia Domna) e Albani (come quello di Caracalla), mentre l’esempio marmoreo più prestigioso degli scavi condotti dai Torlonia è forse un rilievo con una vivace scena portuale da Portus Traiani.
Mi rendo conto della parzialità di questa selezione, condizionata (pesantemente) dalla scelta delle immagini contenute nella cartella stampa. È dunque opportuno che i lettori guardino anche le fotografie d’insieme dell’esposizione; scopriranno così che tra tanti marmi c’è pure un pregevole bronzo, derivante anch’esso da scavi Torlonia: raffigura Germanico Cesare, e proviene dall’antica Cures, in Sabina. L’invito rivolto ai lettori è comunque esteso allo stesso autore di questo articolo, ormai – visti i tempi – trasformato suo malgrado in una sorta di “recensore da salotto”.
Peccato, peccato davvero, non poter visitare la mostra, anche perché – ironia della sorte – ho un bonus per un tragitto ferroviario Milano-Roma di prossima scadenza, dovuto alla cancellazione di un Frecciarossa lo scorso febbraio: un’era geologica fa, quando si leggeva sui giornali che a Wuhan stava succedendo qualcosa…