Si tratta di un testo di satira che castigat ridendo mores: smaschera e censura le cattive pratiche linguistiche con il sorriso e, quando serve, col ridicolo. Il suo bersaglio non sono gli sbagli, fenomeni accidentali e – in qualche misura – involontari (come quando si scrive «ortogtafia» anziché «ortografia»), quanto gli errori, che sono segno di “patologie linguistiche” (p. 7). L’autore infatti spiega: “L’errore è la quintessenza della grammatica, perché non è la semplice violazione di una regola, ma è una violazione basata su un’ipotesi alternativa di funzionamento della lingua, un’infrazione della norma che presuppone un’altra idea di norma, cioè un’altra grammatica” (p. 4).
L’errore è la quintessenza della grammatica, perché non è la semplice violazione di una regola, ma è una violazione basata su un’ipotesi alternativa di funzionamento della lingua, un’infrazione della norma che presuppone un’altra idea di norma, cioè un’altra grammatica.
Della satira il libro riprende, del resto, i toni: dall’ironia sorniona, alla denuncia, non rinunciando al dileggio (di norma dell’errore e non dell’errante, anche se i politici non ne escono molto bene), fino a toccare l’invettiva. De Benedetti è però attento a non eccedere nell’indignazione, sia per la consapevolezza che i vizi linguistici di oggi, un domani potranno diventare virtù riverite, sia per la consapevolezza che ciascuno ha i propri scheletri nell’armadio. Lo stesso De Benedetti ne confessa alcuni (che per rispetto, non riporterò) con ammirevole onestà e autoironia.
Egli, al contempo, ironizza sui “crociati della grammatica” (p. 21) e su quegli insegnanti “schizzinosi, ossessionati dalla grammatica come lo sono certe mamme della pulizia, che quando entri in casa con le scarpe danno una passata con lo straccio anche se non hai lasciato la minima impronta sul pavimento. Con la differenza che lo straccio passato per l’ennesima volta dalla mamma non fa danni alle piastrelle, mentre quello intriso di acido di certi prof rischia di lasciare aloni irreversibili nella coscienza grammaticale dei loro discepoli” (pp. 22-23). Insomma, l’autore mostra che bisogna imparare a usare bene la lingua, ma al contempo, che essa è cosa viva, in evoluzione, che non si può imbalsamare per decreto.
La penna rossa di De Benedetti fustiga le categorie più disparate.
Per fare solo qualche esempio, non risparmia coloro che non vanno d’accordo con le doppie (esterrefatto o esterefatto?, cannocchiale o canocchiale?, vedi p. 13), che si dimenticano o che aggiungono spazi (autobomba, o auto bomba?, vedi p. 16), che litigano con le elisioni (senza La penna rossa di De Benedetti fustiga le categorie più disparate. Ciascuno troverà fustigati i suoi errori preferiti.altro -> senz’altro, vedi p. 34), che si spaventano davanti a un’apocope (cioè un troncamento come «un po’», che è ciò che resta di «un poco», vedi p. 37) e che, per una malintesa par condicio, usano «gli» tanto per gli uomini quanto per le donne («gli ho parlato» riferito a una donna, p. 69).
Anche coloro che demandano al correttore la decisione sull’accento corretto, acuto o grave, non la passano liscia (p. 54), per non parlare dei cultori del pleonasmo, cioè di quelli che amano introdurre parole che non servono proprio a niente (p. 117).
Ciascuno troverà fustigati i suoi errori preferiti: quelli che trova raccapriccianti e che osserva negli altri con lo stesso disgusto e attrazione col quale si assiste a un horror. Per fare qualche esempio, personalmente ho provato un grande piacere leggendo le sue rampogne contro l’uso indiscriminato e perverso della d eufonica (per esempio «ed ora»), che mi ha rubato un pezzo di vita nel lavoro di correzione dei testi degli studenti (p. 26). Allo stesso modo, ho trovato sublime la discussione dell’uso dei plurali delle parole straniere, per cui capita di leggere «lagers» e disperarsi.
Il libro inoltre contiene una serie di perle. L’ho trovato esperto delle cose umane, quando suggerisce che gli errori di grammatica possono uccidere la libido, come succede con un “Vuoi che mi tolgo il reggiseno?”, irrimediabilmente orfano del congiuntivo, lui sì capace di aprire al mistero (p. 57).
L’autore, intento a mostrare il marcio, ha mancato a volte di indicare la regola in vigore. Di quest’ultima lo studente, cui il libro si rivolge, sentirà la mancanza.
Ho ammirato la saggezza salomonica di De Benedetti: «così come ci sono persone che stanno bene pettinate con la riga da una parte e persone che stanno bene pettinate con la riga dall’altra, alcune parole stanno bene scritte con l’accento acuto e altre parole stanno bene scritte con l’accento grave» (p. 55).
Mi sono poi commosso e ho vissuto come una rivelazione il seguente confronto sulla punteggiatura: «Tra “Ti amo più di ogni altra cosa!», “Ti amo più di ogni altra cosa….” e “Ti amo. Più di ogni altra cosa.”, cosa sceglieresti? L’entusiasmo immaturo e con data di scadenza del punto esclamativo, la stolida indeterminatezza dei puntini di sospensione o la rassicurante convinzione del punto fermo?» (p. 121). Beh, non c’è dubbio.
Proprio per stima, non riesco a tacere due piccole critiche al libro. In primo luogo, il tono frizzante stimola e ammalia, ma a certe dosi può stancare e rischia la caduta nel cliché che uccide il guizzo. Infine, l’autore, intento a mostrare il marcio, ha mancato a volte di indicare la regola in vigore. Di quest’ultima lo studente, cui il libro si rivolge, sentirà la mancanza. Proprio allo studente, ma anche a tutti coloro che amano il bel parlare e ne sono sensibili, suggerisco la lettura del libro di Andrea De Benedetti che gioca sulle regole, con le regole, amandole. Punto.