Tesine: “capolavori” o “sfrittellamento del pensiero”?

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«Nuova secondaria», nel numero appena uscito (maggio 2014), dedica al tema “tesine di maturità” un dibattito articolato in 4 interventi: uno di apertura e tre che lo discutono o, comunque, ne prospettano delle alternative (pp. 31-39). La rosa delle posizioni è perciò variegata e va dalla critica dura alle tesine, svolta da Paolo Mazzocchini nel primo intervento, fino a una apertura positiva, come quella di Ornella Gelmi che parla di “capolavori”, pur con le virgolette.

 

Mazzocchini, nell’intervento di apertura, solleva una grave perplessità: le tesine punterebbero su un modello conoscitivo che l’autore chiama “topologico e/o reticolare/radicale” e che costituisce un approccio al sapere inadeguato. Tale modello infatti presuppone come oggetto di studio un topos, un luogo, un “incrocio” in cui si incontrano le discipline più disparate. Da questo punto poi il testo si dipanerebbe in direzioni diverse, in modo radiale, non andando a fondo, ma restando in superficie ed espandendosi in molteplici direzioni. Si tratta di un approccio che l’autore bolla, simpaticamente, con espressioni che egli prende a prestito, come: “sfrittellamento del pensiero” e “splendide cavalcate sul nulla” (p. 33). Su ben altra linea il contributo della Gelmi: la docente non idealizza la realtà (come ho già segnalato, “capolavori” è virgolettato anche nell’originale). Secondo lei la tesina dovrebbe esprimere il prodotto di una tensione ideale che si realizza in un lavoro di ricerca in qualche misura autonomo e personale, a patto che gli insegnanti non si accontentino di banalità. Su posizioni intermedie, circa il tema, ma non prive di spunti critici verso il testo di Mazzocchini, i contributi di Maria Giovanna Fantoli, che riflette sulla propria esperienza didattica, e Luigi Cepparrone, il quale sposta la discussione forse un po’ troppo sul tema della interdisciplinarietà.

Il dibattito offerto sulla rivista mi fornisce l’occasione per andare ad alcuni problemi che mi paiono importanti. A mio parere la tesina, peraltro non d’obbligo, è una splendida opportunità, per lo più mancata da docenti e studenti. Lo studente ha modo di “staccarsi dal manuale”, di svolgere primi passi di autonomia intellettuale, sostenuti e guidati, ma indipendenti nell’origine e nel fattivo sviluppo, a partire da scelte tematiche personali. L’occasione di approfondire e argomentare, di uscire dai rigidi schemi disciplinari, pur facendo tesoro delle diverse metodologie è preziosa. Lo studente può avere così modo di fare pratica di come avviare una ricerca, di imparare a usare gli strumenti di ricerca o di consolidarne l’abilità. Egli può acquisire le tecniche per costruire un breve saggio, curandone la strutturazione, l’impaginazione e la resa grafica. Queste abilità risulteranno preziose all’Università e nel mondo del lavoro. Per svilupparle ci vuole tempo e dedizione, motivazione e buona volontà, oltre che una guida capace e competente.

Il modo in cui però oggi tutto questo è recepito è sconfortante. Per lo più gli studenti avvertono la tesina come un peso in più in un anno – l’ultimo del corso superiore – già denso, con contenuti disciplinari difficili, programmi sterminati, ansie da simulazione di prima, seconda e pure terza prova, senza contare poi i travagli per i test di ammissione all’università, come se non ce ne fossero già abbastanza. Quanto poi ai docenti, si tratta di un peso che faticano o non sanno gestire, di qualcosa che ha creato in loro negli anni disillusioni e amarezze per via del copia-incolla truffaldino, di un lavoro di cui non capiscono bene il senso e che troppo spesso non sanno gestire effettivamente. Si tratta di uno dei tanti lavori sommersi che sono di pertinenza della figura docente. Si dà per scontato che l’insegnante debba svolgere un tale compito, ma – ovviamente – nessun governo si è mai sognato di riconoscerlo con debita gratificazione economica. Esso viene perciò svolto mentre si preparano le lezioni, si correggono pacchi di compiti, si preparano i documenti del 15 maggio e le relazioni finali, si svolgono gli scrutini e ci si appresta a conoscere gli altri membri della commissione, nelle frenesie di fine anno. In altre parole, si correggono le tesine – quando anche lo si fa – all’ultimo momento, di corsa, con poco entusiasmo e tanta distrazione, soprattutto senza capire veramente perché ne vale la pena. So di aver dipinto un quadro tetro che ha sicuramente molte, spero moltissime, eccezioni. Resta però la resa di un disagio reale e diffuso.

Alla diagnosi desolata oso aggiungere una proposta di questi tempi provocatoria. Non credo che la soluzione dei problemi passi per la distruzione di ciò che li causa. In questo senso, togliere la possibilità della tesina sarebbe peggio del male attuale, perché davvero la tesina è una grande occasione, potenzialmente. Cercando allora una via non disfattista, mi chiedo perché non creare la figura del docente tutor, per dare dignità ed effettivo supporto all’impresa? In una scuola che promuove l’intraprendenza, la voglia di lavorare, la competenza e la disponibilità della classe docente, perché non valorizzare le figure di quei docenti che, con consapevolezza metodologica, si pongono come figure di riferimento che guidano i ragazzi, seguendoli tutto l’anno? Si tratta di tanto lavoro di coordinamento e di formazione metodologica che merita di essere gratificato economicamente o almeno riconosciuto in qualche misura. Oggi esso è svolto da tutti coloro che si rendono disponibili, e soprattutto dai cirenei della scuola, quei docenti che si immolano alla causa, per vocazione e abnegazione. Perché il governo, che ha detto di voler puntare sulla scuola, non valorizza la classe docente, per esempio premiando il lavoro extra di tutoraggio e correzione delle tesine e, perciò anche, chiedendo che esso venga svolto non solo con buon cuore, ma anche con consapevolezza metodologica? I pochi soldi necessari consentirebbero di valorizzare la professionalità, di indicare l’importanza che la società riconosce alla cosa, indicherebbe nella formazione secondaria superiore l’importanza della personalizzazione e dello scavo individuale guidati. Fare fatica senza un chiaro scopo, solo perché lo fanno tutti, è ben diverso dal farlo perché la società ne riconosce il valore ed è pronta a pagarne il prezzo, assicurandosi che l’operazione consista in un effettivo impegno personale e non in un “furbo” copia-incolla. Quell’occasione mancata, fin qui celebrata ogni anno nei giorni degli orali dell’esame di Stato, si tramuterebbe allora in una possibilità di crescita intellettuale e umana per molti ragazzi, ora troppo spesso lasciati da soli.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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