Infatti, può capitare che un litigio vinto a parole finisca presto per portare al divorzio. Nondimeno, è importante essere pronti alla lotta e bisogna saperla svolgere con maestria, perché le parole possono lasciare cicatrici che restano per la vita. Rispetto ai trattati di retorica accademica, il libretto di Thomson ha molto di più e molto di meno. Esso manca infatti del taglio pedante e in buona parte inutile che hanno i trattati di retorica, o almeno la maggior parte di essi. Per contro, è ricco di aneddoti e di consigli pratici per difendersi verbalmente. Non si tratta di una banale collezione di storielle, ma della spiegazione di un metodo, di un modo di porsi, ispirato alla filosofia del judo. Per capirlo, facciamo un passo indietro e ricominciamo, questa volta dal sottotitolo.
The Gentle Art of Persuasion, infatti, si rivela quasi una parafrasi del titolo, perché l’arte gentile della persuasione, richiama il concetto di jûdô, che significa “la via gentile”, come Thompson presto spiega. Come questa tecnica di combattimento fisico, di cui Thompson era cintura nera, usa l’energia dell’attaccante per restare in controllo della situazione: così funziona il judo verbale. Le tecniche consistono, tra l’altro, nel deflettere, assorbire i colpi sferrati, riuscendo a mantenere un equilibrio dinamico. Vi è una certa eleganza nel judo, a motivo della capacità di questa disciplina di insegnare il valore dell’armonia e della pace. Gli aneddoti presentati e discussi nel testo sono molti e spesso gustosi, come quando Thompson riesce a salvare la vita di un aspirante suicida, o quando convince un padre impazzito, convinto di dover uccidere il proprio figlio, a lasciarlo andare, o quando un uomo gigantesco, ubriaco e violento vorrebbe aggredire Thompson che però non solo riesce a convincerlo a desistere, ma persino a lasciarsi arrestare. Ci si stupirà che Thompson si sia trovato tanto spesso in situazioni critiche. La ragione va cercata nella sua biografia: rinunciò alla carriera universitaria per fare il poliziotto. Fu in questo modo che scoprì il judo verbale dai veterani ai quali era affidato come recluta. Quella che in loro era pratica irriflessa, intuizione priva di teoria, in lui divenne una disciplina, uno stile consapevole. Egli la imparò, la praticò salvando vite e facendo del bene e poi fondò il Verbal Judo Institute e ne divenne il Presidente, così da insegnarla ad altri. Purtroppo Thompson è scomparso nel 2011, ma la sua intuizione che la filosofia del judo possa essere applicata al contrasto verbale è destinata a durare e a stimolare molti.
Tra gli insegnamenti del judo verbale, vi è il richiamo a usare l’empatia: empatizzare, empatizzare, empatizzare. Mettersi nei panni dell’altro è la chiave per risolvere molte situazioni difficili, anche perché fornisce il punto di vista adatto per trovare cosa offrire nel negoziato, spesso unica via di uscita dalla situazione di crisi. Inoltre, mostrare empatia assorbe la tensione. L’imperativo a empatizzare è unito a quello di ascoltare: due passaggi che mostrano come, per fare buon judo verbale, si deve prestare la massima attenzione all’interlocutore, rimanendo però consapevoli che “la gente quasi mai dice ciò che pensa” (p. 106). Bisogna allora imparare a leggere il non detto.
Il libro è la strana e affascinante sintesi di quello che fu il suo autore: vi si ritrova la mentalità pragmatica di un uomo delle forze dell’ordine fusa con la cultura di un dottore di ricerca; lo slang duro del poliziotto di pattuglia, fuso con un gusto per le etimologie tipico di un accademico; uno stile asciutto e, al bisogno, brutale, fuso con una gentilezza professionale che sa farsi raffinata. Strano che, dopo tanti anni sul mercato americano (la prima edizione è del 1993), il libro non sia stato ancora tradotto in Italia. Qualcuno dovrebbe pensarci.