Quando l’attacco cominciò a scemare, Buddha finalmente disse: “Posso farti una domanda?”. L’uomo assentì, dicendo: “Beh, cosa?”. “Se qualcuno ti offre un dono e tu lo declini, a chi appartiene quel dono?”. L’uomo pensò per un secondo, poi rispose: “Beh, in tal caso esso appartiene alla persona che l’ha offerto”. “Giusto – continuò lui – così, se hai cercato di darmi qualcosa che ho rifiutato, a chi dunque appartiene?”. L’uomo se ne andò.
La storia insegna molte cose: vediamone alcune. Innanzitutto, l’attacco verbale non va a segno per il solo fatto che qualcuno formula degli insulti: ci vuole dell’altro. La dignità di Buddha, infatti, non viene compromessa dall’attacco sferrato, anzi: questo finisce per mettere in risalto la grandezza di Buddha. A un attacco gratuito, rozzo e violento, egli ha replicato con pace, gentilezza e arguzia. Mentre il semplice silenzio sarebbe stato segno di assenza di risorse o di disdicevole supponenza, Buddha ha scelto il giusto momento per entrare: quando cioè la violenza dell’attacco scemava, senza aver ancora sortito alcun effetto. Il silenzio iniziale fa da scudo a Buddha. Esso poi, insieme alla gentilezza della richiesta di poter fare una domanda, destabilizza l’avversario e lo mette in difficoltà. Buddha ha dunque schivato l’attacco e, dopo la prima domanda, sta prendendo il controllo della situazione, ha l’iniziativa: ora l’altro è costretto a rispondere. Soprattutto, come detto, la domanda destabilizza l’attacco: il discorso è portato altrove e non è più in discussione Buddha. Entrambi gli interlocutori si stanno indirizzando verso qualcosa di terzo.
A questo punto arriva la seconda domanda, che porta il discorso ancora più lontano dall’attacco iniziale e segna la definitiva presa dell’iniziativa da parte di Buddha. Questi ha scelto bene la propria entrata: la prima domanda destabilizzava ed era irresistibile, ora questa nuova continua nella direzione della precedente e segna la definitiva presa del controllo da parte di Buddha. L’altro deve stare attento a non fare una figuraccia. Quando Buddha si muove, mostra di essere altrove rispetto alla direzione dell’attacco. Questa è la chiave dell’aikido: si tratta dell’Irimi, la posizione nella quale si è fuori pericolo e si prende il controllo della situazione.
La settimana scorsa ho dato un’idea di come sarebbe potuta andare, se Buddha si fosse semplicemente contrapposto. Quella scelta dal Buddha, invece, è una via di collaborazione: egli non si giustifica, né insulta a sua volta, ma domanda e tratta l’interlocutore con rispetto, come qualcuno che sa, che può aiutarlo a capire. L’altro non è umiliato. Intanto, però, Buddha lo sta portando dove vuole, senza che questi possa farci niente. Con la terza domanda, Buddha chiude il discorso e finisce per vincere il confronto. Va notato che Buddha ottiene il massimo risultato con il minimo sforzo: l’aikido verbale non è una disciplina di potenza, ma di grazia ed eleganza. Buddha non asserisce alcunché, né accusa, né contesta: al contrario, lascia passare i colpi, senza esserne affetto – poi, con la leggerezza di tre domande, chiude il confronto.
Ciò è possibile solo se si riesce a mantenere il distacco. Perché ciò avvenga è necessario possedere un sorriso interiore, dice Luke Archer nel suo Verbal Aikido. Il sorriso interiore è fondamentale ed è quello stesso atteggiamento col quale Buddha riesce a ributtare tutti gli insulti subiti sull’altro, senza esserne colpito. L’energia dell’attacco si scarica su colui che lo ha esercitato. Se l’attaccante avesse avuto lo stesso sorriso interiore, avrebbe riso col Buddha della strategia brillante di questi, mostrando così a propria volta di essere un uomo forte, e deviando quanto il Buddha gli stava restituendo. In tal caso, i due avrebbero potuto continuare a conversare serenamente, da spiriti illuminati, forse da amici. L’uomo però, purtroppo, non ne fu capace, e perciò ne uscì sconfitto.