I paradossi della fiducia: irrinunciabilità

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Un padre disse al figlio di saltare dalla finestra. Alle resistenze di questi, gli domandò, rammaricato: “Non ti fidi di me?”. Il ragazzo, per compiacere, si decise, e saltò. L’esito non sorprenderà: si fece male. “Adesso lo sai: – osservò il padre al figlio dolorante – non ti devi fidare di nessuno, nemmeno di tuo padre!”. Questa storiella ebraica, ruvida e provocante, suscita un quesito di fondo: ci si può davvero non fidare di nessuno?

 

Uno dei paradossi della fiducia riguarda proprio la sua irrinunciabilità, da un lato, e la sua impossibilità, dall’altro: non dobbiamo fidarci e dobbiamo fidarci. Che non ci si debba fidare è detto dall’insegnamento del padre della storiella. Quanto al doversi fidare, anche in un conflitto di tutti contro tutti, si deve prima o poi accettare l’alleanza con qualcuno. Dunque, per sopravvivere in un ambiente popolato da altri uomini e ostile, ci si finirà per affidare alla fiducia, stringendo alleanze. Senza pensare a circostanze tanto speciali, da stato naturale hobbesiano o da Hunger Games, guardando al quotidiano, ci fidiamo continuamente: non temiamo che nostra madre voglia avvelenarci, non temiamo che l’autista della nostra corriera decida proprio ora di farla finita lanciandosi nel vuoto, non rifiutiamo la cartamoneta dataci in resto o come stipendio. Continuamente esercitiamo atti di fiducia e la nostra vita sociale è tanto ricca anche perché ci fidiamo. Questo è vero al punto che, se smettessimo, saremmo presi in cura da uno psichiatra per le nostre paranoie. Dunque, dobbiamo fidarci. Ma la fiducia non è qualcosa di gratuito? E se lo è, com’è possibile che sia l’esito di una necessità?

Il paradosso dell’irrinunciabilità della fiducia, a ben vedere, non è un paradosso resistente: la condizione di rischio che la fiducia comporta è espressa dai due doveri contrapposti. Uno esprime la cautela prudenziale che sottrae al rischio, l’altro la necessità di affrontare il rischio nella vita sociale. Che la fiducia comporta un rischio reale è ben noto e fa parte del gioco. Più complesso è rispondere al quesito sulla necessità dell’atto di fiducia. Questo è gratuito, ma la gratuità si coniuga, senza contraddizione, con l’obbligo. Si tratta di una condizione simile a quella in cui si offre liberamente un controdono, cui pure si era tenuti per obbligo sociale.  Un atto è gratuito se colui che lo compie con deliberazione consapevole potrebbe agire diversamente. Peraltro, se qualcuno ha un obbligo, è anche libero di non ottemperare, altrimenti non si parla di obbligo, né vi è responsabilità. Dunque, tanto la gratuità quanto l’obbligatorietà presuppongono la libertà dell’agente. Dobbiamo fidarci, ma non siamo necessitati a farlo. Si capisce ora che quando si è introdotto il concetto naturalistico di necessità, si creava una conclusione fuorviante. La fiducia infatti è qualcosa di gratuito. Nei legami sociali, essa è richiesta dagli obblighi di legame, non è una necessità. Si esce così dall’orizzonte naturalistico e si entra in quello sociale, che presuppone la possibilità di un’azione diversa da quella decisa.

Come dobbiamo dunque giudicare il padre della storiella? Il suo insegnamento, ancorché crudele, è saggio, o sciocco? Vi sono ragioni per pensare che sia sciocco. Si può, ad esempio, osservare che non c’è vita sociale al di fuori di un qualche orizzonte di fiducia. D’altra parte, l’insegnamento del padre è saggio in quanto stacca l’atto di fiducia da un assenso meccanico, irriflessivo. “Non devi fidarti”, cioè: “Puoi non fidarti, se non è ragionevole”. Ragionevole è detto come giudizio di ciò che è almeno plausibile o opportuno, ma non può essere acquisito con ragionamento stringente. Quella del padre è, insomma, l’indicazione di una possibilità, non certo un divieto di prestar fiducia, simpliciter. Del resto, lo fosse, cadrebbe in una contraddizione pragmatica: perché fidarsi di quell’insegnamento? Kant, più brillante, trovò una via incruenta per insegnarlo: “Sapere aude! abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza”. Ci piace comunque pensare che quel padre, almeno, porse la mano, perché il figlio si rialzasse e gli curò le ferite: si insegna con le parole e con le opere.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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