Filosofia e divulgazione filosofica

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Abbiamo visto la settimana scorsa che Diego Marconi non ha alcuna stima del filosofo mediatico. Questi, del resto, non può riproporre sempre di nuovo i contenuti delle sue competenze professionali: “i lettori si stuferanno di sentirsi raccontare ogni settimana di Nietzsche e di Heidegger, o della Grande Vienna di Wittgenstein, o di come il teorema di Gödel abbia messo in crisi il programma di Hilbert” (pp. 54-55).

 

Egli perciò parla un po’ di tutto e finisce per non parlare di filosofia. Le sue possibilità espressive sono poi gravemente limitate dallo spazio che gli è concesso: “specialmente se il formato della comunicazione è quello coercitivo dell’articolo di giornale, della rubrichetta o dell’intervento televisivo di 45 secondi, che impedisce ogni articolazione e quasi impone la ripetitività” (ibidem). Chi sperava di poter andare alla filosofia per suo tramite deve perciò ricredersi. Va però detto che il filosofo mediatico, pensato da Marconi come una macchietta, difficilmente è riconducibile a esemplificazioni reali.

Per contro, a giudizio di Marconi vi sono due generi di divulgazione filosofica “riuscita”. Il primo è costituito da testi che si presentano come introduzioni alla filosofia, o a sue parti. Egli fa gli esempi de Il primo libro di filosofia di Nigel Warburton o di Brevissima introduzione alla filosofia di Thomas Nagel. Il secondo genere, invece, raccoglie veri e propri saggi teorici di filosofia. Essi, scrive Marconi, “argomentano precise tesi, ma sono intenzionalmente rivolti a un pubblico non specialistico” (p. 58). Marconi fa qui, tra altri, gli esempi di Il mondo messo a fuoco, di Achille Varzi, o Prima lezione di filosofia, di Roberto Casati. Si tratta pur sempre di divulgazione, sostiene l’autore, perché non si tratta di manuali, né di introduzioni: “non presentano panoramiche di problemi filosofici bensì difendono particolari soluzioni di particolari problemi. Non sono scritti da divulgatori ma da filosofi di professione: hanno un retroterra di piena competenza, ma riescono a veicolare i contenuti introducendo via via le informazioni e le spiegazioni indispensabili, senza avere paura di dire cose che tutti gli esperti conoscono a menadito ma, al tempo stesso, senza trattare il lettore come un imbecille” (ibidem).

Mi pare che lo sguardo di Marconi alla filosofia sia viziato da accademismo e da un certo dualismo manicheo che egli ripropone ricorsivamente. Prima egli contrappone i filosofi professionali a quelli – i filosofi mediatici – che dipinge come animali da salotto, mero riempitivo di palinsesti mediatici, poi introduce sulla scena la buona divulgazione, che però – non serve dirlo – non merita di stare al pari della vera ricerca scientifica. Sullo sfondo di questo contrasto lo schema manicheo si ripropone: si vede la buona divulgazione contrapposta alla manualistica e alle “introduzioni”, nei cui confronti la buona divulgazione acquista, immagino, tutta la sua nobiltà. Si tratta del modo di classificare che ha una sua consolidata pratica nell’accademia e una sua legittimazione. Del resto, è quello con cui hanno appena lavorato le commissioni chiamate ad assegnare le abilitazioni nazionali all’insegnamento universitario, ossia organismi composti da accademici come Marconi. A mettere in discussione questo modo di organizzare le cose viene paura, perché la sua autorevolezza è enorme. Ho però troppa familiarità coi classici della filosofia per prendere eccessivamente sul serio questo schema dell’accademia.

Mi pare che ridurre i libri citati di Varzi e Casati a esempi di divulgazione filosofica sia, in senso assoluto, sbagliato. La tassonomia assunta da Marconi delle tipologie di testi che si occupano di filosofia può essere funzionale alle pratiche accademiche e in quel contesto e per quelle finalità può avere senso, ma è riduttivo e sbagliato se assunto in senso assoluto. Potremmo non volere dare la cattedra universitaria a qualcuno che abbia scritto solo e soltanto libri come i due appena citati, per quanto li si apprezzi. Questo però non significa che essi siano divulgazione. In genere, non credo che in filosofia tutto ciò che è accessibile a un pubblico non culturalmente sprovveduto, ma non di specialisti, sia per ciò stesso divulgazione. Il concetto di divulgazione, nella sua accezione ordinaria, ha a che fare con la semplificazione e con l’attenuazione del rigore necessario. Testi come Genealogia della morale, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, L’esistenzialismo è un umanismo, Avere o essere, la conferenza di Wittgenstein sull’etica, Il problema dell’empatia, La costruzione della realtà sociale, sono opere di filosofia, non già di divulgazione filosofica. Stando allo schema di Marconi dovrebbero però rientrare nella divulgazione di secondo genere. Invece sono a tutti gli effetti opere filosofiche; del resto sono studiate come tali dagli storici della filosofia e dai filosofi. Esse presentano tesi filosofiche e non hanno per fine la volontà di semplificare cose complesse e tecniche formulate altrove. Se e quando anche in parte lo fanno, quello che esse sono è qualcosa di nuovo rispetto ai lavori che stanno alle loro spalle. La divulgazione impoverisce e semplifica il complesso, mentre quelle opere sono studiate per dire ciò che dicono a un livello di difficoltà intenzionalmente scelto: non è divulgazione filosofica, è filosofia accessibile. Si noti poi che spesso la complessità non è condizione di rigore e, per contro, la chiarezza e l’accessibilità non sono segno di banalità e semplificazione. Molti testi di Tommaso d’Aquino o di Cartesio, per fare due nomi, sono semplici e accessibili, pur contenendo tanto tecnicismo e una complessità notevole, così che si prestano tanto alla lettura, quanto allo studio e persino allo scavo. Queste ultime sono comunque considerazioni che, credo, troverebbero Marconi d’accordo.

Bisogna vigilare e non lasciare che ci facciano credere che la filosofia o è il trattato di saggistica impenetrabile scritto dagli accademici, o non è, oppure che essa è, ma è di meno. In filosofia, diversamente che nell’accademia, c’è abbastanza spazio per tutti.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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