Filosofi mediatici e filosofi professionisti

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Diego Marconi, ne Il mestiere di pensare, prospetta una dicotomia drammatica tra il filosofo mediatico e il filosofo professionista. Vi si legge: “Si ha l’impressione che ci siano oggi due filosofie: una filosofia professionale, blindata nello specialismo e apparentemente poco capace di incidere sul resto della cultura, e una filosofia mediatica, sostanzialmente irrilevante per i filosofi professionali. è proprio così? In che cosa consiste oggi il mestiere del filosofo?”.

 

Il filosofo mediatico, per come lo dipinge Marconi nel volumetto, porta sui media “la voce della filosofia” su quasi qualsiasi tema. Egli si improvvisa tuttologo e parla in libertà senza avere particolari competenze sui temi su cui è chiamato a esprimersi, se non forse accidentalmente – e comunque non a partire dalla sua specializzazione accademica. Il filosofo mediatico, continua impietosamente Marconi, non necessariamente è più dotato di altri: egli, come l’intellettuale mediatico, “può essere all’incirca chiunque” (p. 51). Di fatto si diventa filosofi mediatici, secondo Marconi, per i motivi più prosaici: perché si è amici di un giornalista importante, si è disponibili a intervenire a brevissima scadenza (“mandami 60 righe per domani”), si è scritto un libro di successo, si è conversatori brillanti o anche solo molto polemici. I meccanismi dello spettacolo finiranno per fare del filosofo mediatico “un grande filosofo”, un po’ per legittimare il giornalista che gli ha dato spazio, un po’ perché la notorietà finisce col portare a premi e riconoscimenti, a prescindere dalla qualità scientifica dello studioso (p. 51). Il filosofo professionista, invece, si occupa di questioni molto circoscritte, tecniche, specialistiche, per pochi e lo fa con gli strumenti della sua disciplina. Chi può pretendere di avere solide competenze in tutti i settori e gli ambiti della filosofia? Facciamo solo qualche esempio: se ci si occupa di semantica formale o di semantica dei termini artefattuali, difficilmente si conosce la letteratura della filosofia della medicina o della bioetica; chi è esperto di teoria delle decisioni o delle teorie della normatività, probabilmente non è esperto di teorie della finzionalità, o di teorie della vaghezza, per non parlare di ontologia sociale, o di fenomenologia del diritto. Servono anni solo per padroneggiare la letteratura di ciascuno di questi ambiti, per imparare a usare il gergo tecnico, per familiarizzare coi temi ricorrenti e con le posizioni teoriche in campo. Anche se si vivesse abbastanza per poterli padroneggiare tutti, ammettendo che non si dimentichi nulla e che si segua man mano la nuova letteratura, si tratterebbe pur sempre di una parte estremamente limitata di quella che è ormai la filosofia. La filosofia accademica si sta facendo sempre più tecnica, sempre meno accessibile, sempre più specialistica, ritiene Marconi. Come entrare in contatto con essa, o almeno coi suoi risultati più rilevanti? La soluzione, ovviamente, non passa dal filosofo mediatico che, se Marconi ha ragione, è buono solo a riempire palinsesti. Bisogna invece ricorrere alla divulgazione, alla buona divulgazione. Marconi ne individua due varianti e la prossima volta proverò a discuterle.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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