Abbiamo visto qualche settimana fa (qui) che jūdō significa “la via gentile”. A non sapere come stanno le cose, si potrebbe pensare che i maestri di arti marziali siano anche maestri d’eufemismo: trovano nomi soffici, innocui, persino accattivanti, per designare tecniche di combattimento brutali, eventualmente letali.
In realtà, se si osserva combattere un maestro di aikidō si ha la sensazione di avere davanti tutto eccetto la brutalità. Si notano infatti grazia, rapidità, eleganza, controllo, armonia (chi non mi crede, può vedere qui).
Il fondatore dell’aikidō, Morihei Ueshiba, amava dire: “ferire l’avversario è ferirsi. Controllare l’aggressione senza infliggere danno è l’Arte della Pace”.
L’aikidōka non cerca di fare del male all’altro, ma non fugge, se attaccato.
La tecnica consiste nell’usare l’energia esercitata nell’attacco, trattando l’altro come un partner, piuttosto che come un nemico da abbattere. Si lascia che sia l’altro ad attaccare, lo si destabilizza e se ne neutralizza l’attacco, prendendo la situazione sotto controllo. Appena l’attacco inizia è già finito, perché l’aikidōka lo manda a vuoto e prende il controllo della situazione.
Egli combatte senza opporsi, e anzi, la sua forza consiste proprio nel muoversi rapidamente in un attacco frontale, mettendosi a lato (Irimi), se non addirittura alle spalle di colui che sferra l’attacco: da quella posizione egli è al sicuro e può gestire il resto dell’azione.
Tutto questo ha a che fare col contrasto verbale: Luke A. Archer infatti ha applicato i principi dell’aikidō ai contrasti verbali, sviluppando un vero e proprio stile: l’aikidō verbale.
Vediamo come, altrimenti, può andare un contrasto normalmente gestito:
Attaccante – Sei sempre in ritardo.
Bersaglio privo di training – Non sono sempre in ritardo.
A – Beh, difficilmente sei un esempio di puntualità.
BPT – Chi pensi di essere per parlarmi in questo modo?
A – Chi pensi tu di essere per non rispettare gli orari?
BPT – Finiscila! Chissà perché mi sono preso la briga di venire?
A – Per l’aiuto che dai, potevi stare a casa.
BPT – Me ne vado.
A colpo è stato risposto con colpo e la situazione è degenerata irreparabilmente. George Thomson, padre del jūdō verbale, chiamava questo tipo di scambi: “karate verbale”. Esso consiste nel colpire, nel cercare di fare male all’avversario, eventualmente parando al contempo i suoi colpi. Il problema è che in questo modo si verificano esiti che, alla fine, sono dannosi per entrambi gli interlocutori. Nel caso specifico, l’attaccante ha perso un collaboratore che, sarà forse stato sempre in ritardo, ma magari aveva anche delle buone qualità che è stato un peccato perdere; l’interlocutore poi ha addirittura perso il lavoro. Per contro, utilizzando il jūdō verbale o l’aikidō verbale si riescono a evitare simili esiti, come cercherò di mostrare la prossima volta.