Eppure sono reduce da un viaggio ad Atene diverso dai precedenti, perché è stata la prima volta in periodo non estivo (ho così sperimentato pure la pioggia sul Partenone) e anche la prima con gli studenti, nello specifico quelli della II e III A del Liceo Classico del “Banfi” di Vimercate, scuola amica della Ricerca.
Sì, quest’anno ho ceduto (senza fare troppa resistenza, lo ammetto) alle pressioni dei ragazzi, e l’ho fatto quando ho realizzato che solo pochissimi di loro erano già stati in Grecia, e per ragioni strettamente balneari: nelle mie intenzioni c’era il dare a quel mondo greco classico – che per tanti anni ha “imbrigliato” le loro vite – una forma, dei colori, degli odori: gli stessi che spingono me a tornarci sempre, e sempre senza pentirmi di avere prenotato l’ennesimo volo o l’ennesimo traghetto.
Il modernissimo museo di Bernard Tschumi
Ma torniamo al viaggio di istruzione, del quale ovviamente ometto la cronaca: nel bene e nel male, ordinaria amministrazione. Volevo però soffermarmi sulla visita del rinnovato Museo dell’Acropoli, che ha impressionato non poco gli studenti e che anche a me ogni volta dà un’emozione enorme, da quando è stato aperto nel 2009: manco a dirlo, lo visitai subito e approfittai anche l’anno prima della possibilità di una visita parziale durante i lavori in corso, mentre il modernissimo edificio di Bernard Tschumi veniva allestito.
Non starò certo ora né a descrivere la struttura del museo, né a dettagliarne il contenuto: dico solo che vedere i marmi del Partenone (con l’eccezione di quelli Elgin, oggi al British, qui riprodotti in copia) mentre dal vetro della sala si scorge – proprio lì di fronte – l’acropoli è molto istruttivo e suggestivo. E dire così è anche poco.
La “colmata persiana”: il sacrario di Atene
C’è però una cosa che ho fatto notare ai ragazzi più di ogni altra, e cioè che il nucleo del museo (al di fuori delle decorazioni del Partenone e delle Cariatidi dell’Eretteo) proviene dalla cosiddetta “colmata persiana”, e cioè dalla fossa che gli Ateniesi riempirono con quello che restava dopo la duplice distruzione a opera dei Persiani di Serse dell’acropoli di Atene (nel settembre 480 e nell’estate 479 a.C.). Un gesto simbolico, quello della polis che aveva guidato la Grecia contro l’armata del Gran Re, che più o meno voleva significare questo: “I Persiani ci hanno messo a ferro e fuoco la città, ci hanno distrutto templi e statue, ma noi li abbiamo sconfitti e di quei loro gesti sacrileghi non vogliamo più vedere traccia”.
Seppellire, però, vuol dire nascondere dagli occhi, ma non dal cuore. Pertanto quando l’Atene di Temistocle, Cimone e soprattutto Pericle, divenuta leader della potente Lega Delio-Attica, volle monumentalizzarsi come conveniva al suo rango, sapeva di custodire nel ventre della terra – quella terra attica di cui i suoi cittadini si credevano autoctoni – un grande segreto, un inestimabile tesoro, un vero e proprio “sacrario”.
- Il Partenone dopo la pioggia
- La bandiera greca sull’Acropoli
- Il Museo dell’Acropoli
- Frontone e metope del Partenone
- Il fregio del Partenone, ricomposto nel Museo
- Fidia, particolare del fregio del Partenone
- Gli studenti del Banfi davanti alle Cariatidi
- Il Moscoforo estratto dalla colmata persiana
- Il Cavaliere Rampin
- La Kore col peplo
- La Kore di Antenore
Una cassaforte di capolavori
A svelarlo sono stati solo gli archeologi moderni, a metà del XIX secolo, quando vi hanno trovato alcuni dei capolavori della scultura greca. Tra questi alcune splendide korai, il Moscoforo, il Cavaliere Rampin (la cui testa originale è oggi al Louvre), che hanno dato agli studiosi il terminus ante quem della fase arcaica dell’arte greca; infatti questa dal 480 a.C. circa dà inizio – con il cosiddetto “stile severo” – alla sua fase classica.
Sono dunque opere del VI secolo a.C., quello di Solone, dei Pisistratidi e di Clistene; quello che ha visto Atene iniziare la sua competizione con Sparta per il primato sulla Grecia: un primato che i Lacedemoni pensavano di ottenere con le armi, gli Ateniesi con le arti, le lettere, la filosofia.
E se è vero che la guerra del Peloponneso della seconda metà del V secolo a.C. vide Atene sconfitta da Sparta, è però vero che oggi Sparta è una polverosa cittadina di provincia, mentre i monumenti di Atene sono tra i più preziosi e noti patrimoni dell’umanità: è stata la Storia, con la S maiuscola, a decretare così.
E se pensiamo che, ad esempio, la Kore col peplo, quella di Antenore, o le due statue virili che ho menzionato erano doni per la dea Atena, ci rendiamo conto del legame speciale che univa la divinità protettrice alla sua città: i cittadini che potevano permetterselo volevano infatti la loro statua votiva nel santuario della loro patrona. Oggi sarebbero – credo – contenti che queste statue siano viste da milioni di persone ogni anno, e anche dai miei estasiati studenti; con questi reperti la terra è stata lieve, e la “colmata persiana” si è rivelata una sorta di cassaforte, che li ha salvati dalla furia iconoclasta (o collezionistica) di uomini di ogni epoca e di ogni religione.
Essi sono stati quasi duemilacinquecento anni sepolti vivi (sì, vivi, non è forse viva, anzi eterna la suggestione che essi emanano?), senza perdere i loro arcaici sorrisi e in qualche caso anche parte dei loro originari colori; sono stati come un “serbatoio” di bellezza, dal quale l’umanità ha potuto estrarre un po’ di calore per riscaldare la propria algida modernità.
Il dovere della memoria
Ed è (anche) per questo che dobbiamo loro rispetto, consegnando queste statue integre alle generazioni future; e consegnando a queste anche il know how per poterle apprezzare e comprendere appieno: ad esempio la possibilità di leggere le iscrizioni greche che esse supportano, le quali ci dicono che il Moscoforo è stato dedicato da Rhombos, figlio di Palos, e che la più celebre delle korai è stata affidata dal ceramista Nearchos allo scultore Antenor.
Per fare ciò bisogna che lo studio della storia antica, delle lingue classiche, dell’archeologia resistano al fuoco nemico e amico che li bombarda, e non finiscano in una moderna “colmata” dove farebbero loro compagnia solo auto usate, batterie al litio scadute, macerie di case costruite senza rispetto delle leggi. Roba senza sorriso, senza colore e senza classe, che dubito riscalderà i cuori di qualcuno tra duemilacinquecento anni.