A un certo punto della carriera, sono molti gli attori che cedono alla tentazione di passare dall’altra parte della cinepresa per confrontarsi con il mestiere del regista. A volte sono esperimenti senza seguito, figli della curiosità, in altri casi si tratta forse del desiderio di controllare tutti gli aspetti di un film – quanti comici italiani sono caduti in questa tentazione. Per alcuni si tratta di una scelta più consapevole, che apre una nuova fase della carriera artistica: pensiamo al caso di Clint Eastwood. Per George Clooney, invece, la regia sembra un intermezzo, una semplice pausa, a volte impegnata, a volte giocosa, nella sua carriera di attore: un rapporto discontinuo, che sembra restare irrisolto. Clooney resta un attore, e l’amore intermittente per la regia a volte sembra un ostacolo per il suo talento e la sua crescita professionale. Se abbiamo apprezzato Good Night, and Good Luck (2005) e Le idi di marzo (2011), non ci hanno convinto In amore niente regole (2008) e il recente Monuments Men (2014).
Suburbicon è un film troppo Coen-style, ma senza essere un film della coppia di fratelli più famosa di Hollywood. Scritto e non diretto dai Coen, il film ha il limite di sembrare un’opera manierista, che ripropone situazioni, ambientazioni, personaggi che fanno parte dell’universo narrativo dei Coen, senza mai mostrare il talento autoriale, la graffiante e surreale verve sarcastica del loro cinema.
In Suburbicon ritroviamo le suggestioni noir, i sospetti, i tradimenti e i crimini di Blood Simple (1984), Crocevia della morte (1989) e Fargo (1996), la solitudine e ineluttabilità del destino di L’uomo che non c’era (2001), certe atmosfere sociali che ricordano Barton Fink (1991), Mister Hula Hop (1994) e A Serious Man (2009), ma si tratta di un sottofondo stilistico che arriva sullo schermo dalla sceneggiatura, senza essere sostenuto da una vera impronta registica capace di dare corpo, senso e carattere alla scrittura.
Vedendo il film di Clooney si ha la stessa sensazione che si prova quando si confrontano i quadri di un grande pittore con quelli realizzati dagli allievi della sua bottega. Magari sono anche ben eseguiti da un punto di vista tecnico, seguono l’idea espressiva del maestro, ma mancano di personalità, d’anima e poesia. Questo è il difetto principale di Suburbicon.
La vicenda si svolge in una specie di “Milano 2” della provincia americana degli anni ’50. Un quartiere residenziale creato per bianchi benestanti, in cui all’improvviso arriva una famiglia di colore. Mentre si scatena l’odio razziale verso i neri, il tranquillo e stimato Gardner Lodge organizza l’uccisione della moglie paraplegica Rose per poter finalmente vivere con Margaret, sorella gemella di Rose. È solo l’inizio di una spirale criminale che condurrà Gardner sempre più a fondo.
L’unico spunto interessante del film sembra essere la critica alla miopia della middle class americana: troppo impegnata a combattere un “nemico” inoffensivo, che ha l’unica colpa di avere la pelle nera, non si accorge del male oscuro e perverso che si annida al suo interno. Proprio come la graziosa villetta di una perfetta famiglia americana, che dietro la facciata curata e perbene nasconde l’orrore.
Gardner Lodge rappresenta il simbolo di un cancro sotterraneo e invisibile che corrompe il tessuto sociale dalla sue fondamenta. La sete di denaro, gli istinti sessuali repressi, le frustrazioni quotidiane sono la benzina che incendia l’animo di Gardner oscurando ogni considerazione etica, i sentimenti umani, il rispetto della legge e delle regole della civile convivenza.
Chissà, forse avrebbe potuto essere un bel film se Joel ed Ethan l’avessero anche girato.
Suburbicon
Un film di George Clooney
Con: Matt Damon, Julianne Moore, Noah Jupe, Glenn Fleshler, Alex Hassell, Gary Basaraba, Oscar Isaac, Jack Conley, Karimah Westbrook, Tony Espinosa, Leith Burke, Josh Brolin.
Produzione: USA, 2017
Durata: 105 minuti