Osservare, imparare con e dagli altri, sono pratiche che l’antropologia ha adottato come metodo da diverso tempo. Fino a poco tempo fa, gli altri erano unicamente esseri umani diversi da un generico “noi” o “io” antropologico. Oggi sembra che l’antropologia, così come altre discipline, abbiano riconsiderato la possibilità di imparare qualcosa da qualcun altro: specie viventi differenti da Homo sapiens, quella a cui tutti “noi” apparteniamo.
Imparare con gli altri attraverso l’osservazione, il dialogo e il vivere insieme è un modo di essere tipicamente antropologico. Allo stesso tempo, ritengo si tratti di una pratica di vita estremamente efficace per affacciarsi nel mondo di oggi. Un modo di stare su questo pianeta che potrebbe essere esteso a numerosi contesti umani (di apprendimento, ricerca, lavoro, svago e così via). Per questo, incamminarsi lungo un odoroso sentiero di campagna, addentrarsi in un folto bosco ovattato, o inerpicarsi per uno scosceso pendio non credo siano mai (eccetto rari casi) cattive idee. Non si sa cosa si può scoprire e in quale incontro ci si stia per imbattere. Con i sensi in allerta, il nostro corpo entra in relazione con l’intorno.
A volte, invece, un incontro può celarsi nella quotidianità della nostra casa: più precisamente tra le pagine di un libro. Non sarà di certo una novità per gli studiosi di biologia o per i lettori amatoriali di mondi non-umani. In alcuni casi, però, il contatto è particolarmente sconvolgente, tanto da mettere in moto una catena di pensieri che ci portano a riflettere su tutt’altro.
Il calamaro luminescente delle Hawaii
Qualche tempo fa stavo leggendo il bellissimo libro del filosofo australiano Peter Godfrey-Smith, Altre menti, pubblicato da Adelphi con la traduzione di Isabella C. Blum. Grazie a Godfrey-Smith ho potuto trascorrere qualche settimana piacevolmente immerso nel mondo sottomarino dei cefalopodi: polpi, calamari e seppie. Esseri viventi di cui ignoravo e ignoro tutt’ora moltissimo, ma che si sono subito mostrarti estremamente affascinanti e “educativi”. Pur senza indossare maschera e boccaglio, l’autore ci permette di entrare in contatto con l’intelligenza spiccata di queste creature e di mettere in discussione la nostra idea di coscienza. Nonostante l’infinità di pensieri che possono emergere a riguardo, non è di questo aspetto che desidero parlare in questo articolo. L’incontro che mi ha fatto riflettere e per cui adesso sto scrivendo è avvenuto con un minuscolo e geograficamente distante cefalopode hawaiano di cui parla Gofrey-Smith. Il calamaro luminescente delle Hawaii, scientificamente conosciuto come Euprymna scolopes.
Questo calamaro appartiene alla famiglia dei Sepiolidae e raggiunge la lunghezza di 30 mm di mantello (la parte più esterna del corpo dei cefalopodi privi di conchiglia). Un individuo così piccolo che abita nelle acque marine deve difendersi da molti predatori, ma allo stesso tempo necessita di procurarsi del cibo: un’attività che svolge prevalentemente di notte. La particolarità di E. scolopes è quella di essere molto bravo a mimetizzarsi. Oltre a produrre una nuvola di inchiostro che simuli la propria forma per sfuggire agli inseguitori, è capace di illuminarsi per confondersi con la luce lunare e nascondere la propria ombra durante le ore di caccia.
Tenterò di essere più preciso per trasmettere quanto sia ingegnoso l’escamotage impiegato dal calamaro hawaiano. E. scolopes si avvantaggia di una simbiosi mutualistica con i batteri bioluminescenti Vibrio fischeri. Questi vivono in colonie in un particolare organo luminoso all’interno del mantello del calamaro, vicino alla sacca dell’inchiostro. Ogni calamaro di questa specie, quando nasce, deve stringere una simbiosi con i batteri bioluminescenti e, durante la giornata, la concentrazione di V. fischeri nell’organismo varia, diventando massima nella fase notturna, quando la simbiosi deve dare i suoi frutti. Di notte, infatti, il piccolo calamaro esce allo scoperto ma deve fare attenzione ai predatori e allo stesso tempo cogliere di sorpresa le prede. Si mimetizza per sopravvivere e raggiungere il proprio obiettivo: ottenere nutrimento. Per fare ciò i batteri producono una luce che il calamaro emette verso il basso, modulandola in base all’intensità della luce lunare, impedendo così la formazione di un’ombra rivelatrice sul fondale. E. scolopes imita l’intensità della luna e nasconde la propria ombra per non essere avvistato attraverso un processo di controilluminazione (un animale produce luce per eguagliare uno sfondo illuminato, come la superficie del mare). Una tecnica di camuffamento sorprendente. A maggior ragione se si considera che i batteri attivano la luminescenza solo se nelle vicinanze rilevano la presenza di altri batteri sufficiente per produrre la quantità di luce necessaria al calamaro per difendersi (quorum sensing).
Un “gioco” da rampicanti
Se gli esempi di mimetismo nel mondo animale sono ampiamente conosciuti – assistiamo con stupore al mutamento di sfumature prodotto dal camaleonte – quelli che coinvolgono il mondo vegetale sono molto meno noti. Quanti di noi sanno che anche le piante adottano tecniche di camuffamento? Io, personalmente, fino a qualche anno fa lo ignoravo totalmente.
Anche per questo, quello con una pianta rampicante che abita le foreste temperate di Cile e Argentina è stato un incontro sconvolgente. La Boquila trifoliata è l’unico esemplare del genere Boquila ed è una delle creature viventi che eccellono nell’arte del mimetismo. Per moltissimo tempo, infatti, nessuno si è accorto delle sorprendenti e forse uniche capacità di questa pianta. Molti erano a conoscenza della sua esistenza, delle bacche edibili che produce e della localizzazione, ma fino al 2013 nessuno aveva notato un carattere incredibile della Boquila: la capacità di imitare forma, colore e dimensione delle foglie delle piante su cui si arrampica (Mancuso, 2017). Una scoperta che lasciò a bocca aperta. Le piante solitamente sono percepite alla stregua di oggetti inanimati, prive di capacità di senso, arredi. Che una specie appartenente al mondo vegetale possa competere e addirittura superare gli altri regni viventi (animali compresi) nell’arte dell’inganno può essere uno smacco insopportabile.
Il primo ad accorgersi di questa rarità fu il botanico Ernesto Gianoli, che a partire dal 2013 condusse alcuni studi su B. trifoliata insieme allo studente Fernando Carrasco-Urra (Gianoli e Carrasco-Urra, 2014). I due studiosi scoprirono che la Boquila non era “solo” in grado di modificare forma, dimensione e colore delle proprie foglie in base a quelle della pianta “ospite”, ma lo stesso singolo individuo di Boquila poteva imitare contemporaneamente più specie differenti, a seconda di quella a cui si trovava più vicino.
Ora non posso dilungarmi troppo sulle sorprendenti azioni di cui è capace un essere vivente solitamente considerato “immobile”. Almeno due domande, però, sorgono spontanee. Come mai B. trifoliata imita altre specie? Ma soprattutto, come riesce a farlo?
Arrampicarsi su… piante di plastica
Partiamo dal primo interrogativo. Diversi studi ipotizzano che l’inganno avvenga per due possibili ragioni: la pianta di Boquila potrebbe avere foglie più “gradite” agli insetti, per questo imiterebbe quelle di specie meno desiderate o addirittura tossiche per gli erbivori, in modo da non essere mangiata. La seconda ipotesi è che confondendosi con le piante circostanti le probabilità statistiche di essere predata dagli erbivori diminuiscano. Semplificando, il mimetismo (in questo caso) è una strategia di sopravvivenza. È necessario confondersi con la massa per restare indenni e ridurre le possibilità di essere colpiti.
La seconda domanda è più stimolante e ancora non sembrerebbe esserci una risposta certa. Sono state avanzate diverse ipotesi, anche dagli stessi Gianoli e Carrasco-Urra. La pianta rampicante potrebbe sapere in che modo imitare le foglie grazie alla trasmissione di sostanze volatili (che sono normalmente diffuse in aria dalle piante per altre funzioni) prodotte dall’ospite, oppure in seguito a una trasmissione di geni tra i due individui. Ora, entrambe le spiegazioni trovano criticità per motivi diversi. Inoltre, un passo importante verso la soluzione dell’enigma è stato realizzato recentemente, ma prevedrebbe qualcosa di ancora più sorprendente – per certi versi – delle capacità mimetiche della Boquila.
La pianta rampicante saprebbe cosa e in che modo imitare altre foglie perché è in grado di vederle. Boquila trifoliata potrebbe essere dotata della vista. In particolare, grazie alle cellule dell’epidermide che funzionerebbero come ocelli, occhi semplici che si trovano negli invertebrati (Baluška e Mancuso, 2016; Mancuso 2017). Le precedenti ipotesi, quelle della trasmissione volatile di sostanze e quella genetica, troverebbero anche un ostacolo in un recente studio. Come dimostrare che B. trifoliata sia in grado di vedere?
Occorreva un’intuizione e, come a volte accade quando menti brillanti si uniscono verso una stessa direzione, è stata trovata. A posteriori sembra una soluzione semplice, e probabilmente per questo stupefacente. Per tentare di dimostrare la capacità di Boquila trifoliata di vedere, la pianta è stata fatta arrampicare su piante di plastica. Piante finte, come quelle che si possono comprare al supermercato. Prive di materiale organico, genetico e incapaci di produrre sostanze volatili. Con enorme sforzo, ma con eccellenti risultati, la pianta di Boquila è stata capace di imitare forma, colore e dimensione anche dell’ospite di plastica (White e Yamashita, 2022). Un esito davvero affascinante.
Ora, occorre ancora molta cautela nell’affermare che alcune piante possano vedere, ma di certo questa storia ci permette di meravigliarci delle insospettate capacità di inganno e dei meccanismi messi in atto da una “semplice” pianta rampicante che vive nelle foreste temperate del Cile. Una pianta che per molto tempo è rimasta “nascosta”: solo osservandola e imparando da e con essa è stato possibile scoprirne i caratteri sorprendenti.
(continua)
Bibliografia
F. Baluška, S. Mancuso, Vision in Plants via Plant-Specific Ocelli?, in “Trends Plant Science”, Vol. 21, No. 9, Settembre 2016, pp. 727-730.
E. Gianoli, F. Carrasco-Urra, Leaf mimicry in a climbing plant protects against herbivory, in “Current Biology”, Vol. 24, No. 9, 5 maggio 2014, pp. 984-987.
P. Godfrey-Smith, Altre menti, trad. I. C. Blum, Adelphi, Milano 2018.
S. Mancuso, Plant Revolution, Giunti Editore, Firenze-Milano 2017.
A. Nocera, Educazione vegetale, “La ricerca” online, 31 agosto 2022.
S. Lev-Yadun, M. Inbar, Defensive ant, aphid and caterpillar mimicry in plants?, in “Biological Journal of the Linnean Society”, Vol. 77, No. 3., 2002, pp. 393-398.
J. White, F. Yamashita, Boquila trifoliolata mimics leaves of an artificial plastic host plant, in “Plant Signaling & Behavior”, Vol. 17, No. 1, 31 dicembre 2022.