Eppure. Nonostante tutto. Nonostante la diminuzione, o l’eliminazione, delle ore di storia dell’arte a scuola, nonostante, salvo rari casi, il pessimo esempio dato dalle istituzioni nei confronti del patrimonio culturale, di cui pure proclamano l’importanza. Ancora oggi – ne siamo convinti – il patrimonio culturale è uno dei cardini attorno a cui si crea l’identità nazionale dei Paesi in via di sviluppo, riuscendo ad amalgamare realtà sociali non sempre omogenee.
Già che ci sono, vorrei far notare quanto sia fuorviante la definizione, tornata di gran moda in questo periodo, del patrimonio culturale come “giacimento” e “petrolio”. I giacimenti si sfruttano e si esauriscono. Come scrive Vittorio Emiliani in “Eddyburg”, I beni culturali non sono “il nostro petrolio”.
Mi ricordo che, anni fa, un’altra indagine aveva messo in luce che se nessuno ci accompagna in un museo prima dei vent’anni, molto difficilmente ci si entrerà dopo. Perché, come riportato nell’articolo dell’“Espresso”, i consumi culturali dei giovani fra i 18 e i 25 anni si basano su un’abitudine costruita in precedenza. E qui stiamo parlando di economia della cultura.
Pensare a quanto l’Italia aveva fatto, fin dalla fine dell’Ottocento, per introdurre l’insegnamento della storia dell’arte nelle scuole secondarie, allo scopo di far conoscere ai giovani il patrimonio del proprio Paese e del proprio territorio, anche attraverso gite e visite a monumenti e musei, incentivate – più a parole che con un reale sostegno economico – dal ministero.
In un precedente articolo (Storia dell’arte a scuola: avventurosi esordi) avevamo lasciato la storia dell’arte al suo ingresso ufficiale nella scuola secondaria con la Riforma Gentile del 1923, dopo la sua prima fase sperimentale. La materia entrava così nei licei classici e nei nuovi licei femminili (di breve durata, in quanto scontentarono tutti) con programmi, orari e insegnanti specifici. Da questo momento cambiarono i temi di discussione, focalizzati sul limitato orario di lezione (ci ricorda niente?), lo sviluppo dei programmi e il reclutamento degli insegnanti.
Nel 1926 furono introdotti gli esami di abilitazione per l’insegnamento della storia dell’arte; consistevano solo in esami orali: un colloquio e una prova di lezione. Ma lo stipendio dell’insegnante di storia dell’arte, in condizione di forte inferiorità morale rispetto ai colleghi, era basso, non riusciva ad attrarre i giovani formatisi in anni di studio nelle università e nella scuola di perfezionamento di Adolfo Venturi a Roma. Per mancanza di abilitati, spesso gli incarichi erano affidati anche a studenti non laureati.
Per gli orari vale la pena citare almeno quello del 1930: 1 ora in prima, 1 in seconda, 2 in terza. Prima di autonomia e sperimentazioni era il normale orario del liceo classico.
Interessante seguire anche lo sviluppo dei programmi, la nascita dei primi manuali scritti da storici dell’arte (e non più da “letterati”), il divario che ben presto si forma fra programma e manuale. Spesso veniva sottolineata la necessità di adattare il programma alle varie realtà regionali, pur senza compromettere la visione di insieme della tradizione artistica nazionale. La scuola fiorentina, comunque, doveva essere studiata in tutte le regioni. Il programma compilato nel 1933 era incredibilmente ricco. Furono subito realizzati i primi compendi di storia dell’arte: il primo, mitico Bignami, è del 1934.
Con un grande salto, che non rende giustizia a tutto il fermento che circondava la materia, passiamo alla fine della guerra. La Commissione ministeriale per la defascistizzazione pubblicò nel 1944 l’elenco ufficiale dei libri di testo esaminati (anche quelli di storia dell’arte), distinguendoli in libri di cui era proibito l’uso e la vendita, libri approvati purché privati di alcune pagine e libri approvati. La commissione per la revisione dei programmi delle scuole secondarie sintetizzò esageratamente, fra ampie critiche, il programma di storia dell’arte, riducendo la pittura del Quattrocento a Masaccio, Beato Angelico, Botticelli, Verrocchio. Solo nel 1957 vennero finalmente assegnate le prime 25 cattedre di storia dell’arte.
Il percorso per l’inserimento della materia nelle scuole è stato lungo e non privo di ostacoli, ma ne valeva la pena. Come hanno sempre sostenuto Ernst Gombrich e André Chastel, così come Salvatore Settis, Cesare de Seta, Marisa Dalai Emiliani, la tutela si basa sulla conoscenza diffusa del nostro patrimonio culturale, e i migliori custodi di questo patrimonio sono proprio i cittadini e in particolare i giovani.
Nel 1902 era crollato il campanile di San Marco a Venezia. Nel 1913, Giulio Natali, letterato e autore di un manuale di storia dell’arte, scriveva “Lo studio dell’arte, illustrazione eloquente della nostra storia, abituerà gl’Italiani a religiosamente rispettare i loro gloriosi monumenti, e li salverà dalla taccia di barbari e d’inetti. Né i nostri campanili crolleranno, colpa nostra e vergogna, e nostro incalcolabile danno”.
Non so perché, ma mi viene in mente Pompei.