Una frase della petizione mi riporta indietro nel tempo: “Ma forse ci siamo talmente abituati e assuefatti a tale abbondanza d’arte che pervade ogni angolo del nostro Bel Paese, che neanche percepiamo la gravità insita nelle carenze delle nostre politiche dei beni culturali…”. Abituati e assuefatti: il patrimonio artistico è dato per scontato. Alla fine dell’Ottocento, l’abitudine alle bellezze artistiche e la credenza in un sentimento “innato” per l’arte da parte degli italiani avevano fatto scrivere a Adolfo Venturi: “Noi non abbiamo pensato alla necessità prima: educare! Si è creduto il sentimento dell’arte così naturale nel bel paese che ogni sforzo per dirigere e affinare quel sentimento è sembrato vano. L’arte è un linguaggio che l’Italia crede di comprendere senza la conoscenza del suo dizionario, anzi del suo alfabeto” (Adolfo Venturi, Per l’arte italiana, in “Nuova Antologia”, 16 dicembre 1899, 672, pp. 715-716).
Nonostante quello che i mezzi di comunicazione continuano ad affermare, ormai dovremmo saperlo: non è una questione di quanta percentuale di beni culturali abbiamo in Italia, l’importante è la diffusione di questo patrimonio in tutto il territorio nazionale. Non c’è paesino o borgo, per quanto sperduto, che non possa vantare una qualche testimonianza storico-artistica; è questa la nostra caratteristica: non abbiamo solo i capolavori nei musei, ma tutto un patrimonio, alto e basso, distribuito fra le nostre regioni.
Dopo l’Unità d’Italia divenne ben presto evidente che la conoscenza del patrimonio artistico (così come quella della lingua e della letteratura) avrebbe potuto contribuire a formare la coscienza nazionale degli italiani, permettendo loro di appropriarsi dell’identità storica e culturale del proprio Paese, pur nel rispetto delle diversità regionali. La conoscenza dell’arte avrebbe inoltre favorito un maggior interesse per la tutela del patrimonio, la diffusione del senso estetico e il completamento della cultura generale. Dalle scuole secondarie, si sosteneva, sarebbero usciti i giovani che avrebbero formato le classi dirigenti e che avrebbero avuto il dovere di tutelare il patrimonio artistico nazionale.
Alla fine dell’Ottocento partirono così, in molte città d’Italia, i primi insegnamenti sperimentali di Storia dell’arte, inserita come materia facoltativa nei programmi del liceo classico (luogo privilegiato di formazione della nuova classe dirigente), ma anche delle scuole normali (che preparavano i maestri elementari) e degli istituti tecnici.
Un acceso dibattito nelle principali riviste culturali dell’epoca accompagnò l’introduzione della materia nelle scuole, intrecciato in modo indissolubile a quello relativo al suo insegnamento universitario. Ancora, infatti, non esistevano cattedre di Storia dell’arte che avrebbero potuto garantire la formazione degli insegnanti delle superiori: Adolfo Venturi sarebbe diventato ordinario all’Università di Roma solo nel 1901, con l’assegnazione di una cattedra “per chiara fama”.
La circolare di Enrico Panzacchi del novembre 1900 costituì il primo vero tentativo di introdurre la storia dell’arte, a titolo sperimentale, nelle superiori, affidandone l’insegnamento all’insegnante di lettere o a quello di storia, o comunque al “più idoneo” presente nell’istituto, dando impulso a nuove sperimentazioni.
La storia dell’arte entrava nelle scuole nel periodo in cui si stavano diffondendo le riproduzioni fotografiche; gli studenti strappavano le pagine delle riviste illustrate per portarle in classe, le scuole acquistavano le foto dei fratelli Alinari. Si diffondevano i primi manuali, ad uso dei licei e delle “persone colte”, si cercavano riproduzioni di opere d’arte per decorare le aule, si incentivavano le visite scolastiche a monumenti e musei.
L’avventurosa – e affascinante – fase sperimentale durò fino alla Riforma del ministro Giovanni Gentile del 1923, quando la storia dell’arte entrò ufficialmente nei licei classici e nei nuovi licei femminili (ben presto eliminati) con orari, professori e programmi propri. Ma questa è un’altra storia.