Con «Sto dormendo», comunque, come dicevo in gioco c’è ben di più di un asserto paradossale: siamo piuttosto davanti a uno dei nodi più importanti della riflessione filosofica di tutti i tempi, la questione del sonno e della sua distinzione dalla veglia, dalla vita vissuta. La vita è sogno? Come posso dire che non sto sognando, qui, ora, mentre scrivo queste righe? E tu che leggi, non potresti aver prodotto tu stesso, nell’inconscio, le idee con cui ora ti confronti, come fossero mie, nel tuo sogno attuale?
Sono già passato per la questione, su queste pagine. Oggi, è tempo di soffermarmici a partire dal libro di uno dei più noti allievi di Wittgenstein, Norman Malcolm (1911-1990). Il libro è stato meritoriamente tradotto in italiano, Sul sogno. Un’indagine filosofica (1959). Come già su altre cose, le posizioni dei filosofi sulla possibilità di distinguere tra sogno e veglia si raccolgono in due schiere contrapposte, lasciando però sul campo un numero di perplessi, tra cui i cultori del Teeteto di Platone (157e-158e). La prima schiera raccoglie coloro che pensano che si possa distinguere tra sonno e veglia: tra questi Cartesio e Hobbes. Gli altri invece, come G.E. Moore e Russell, negano tale possibilità. Da come si affronta la questione, si aprono piste filosofiche fra loro molto diverse, irriducibili, come quella scettica, quella idealista o quella realista. Per scongiurare lo scetticismo, in lui momento metodologico, Cartesio formula un argomento importante. Malcolm lo chiama «principio di coerenza» e ritiene che Cartesio ne abbia dato la formulazione migliore (p. 112). Ecco il testo di Cartesio, nella sua versione più breve:
la nostra memoria non può mai legare e congiungere i nostri sogni gli uni agli altri e con tutto il séguito della nostra vita, come, invece, è solita congiungere le cose che ci accadono stando svegli (Meditazioni metafisiche, in Opere filosofiche, Laterza, Roma-Bari 1990, vol. 2, p. 83).
Malcolm, per parte sua, affronta il problema del sogno facendo qualcosa di nuovo. Non a caso il suo libro ha ricevuto l’attenzione di studiosi di prestigio come Putnam, Ayer, Dennet, come ricorda Luigi Perissinotto nell’utile introduzione. Malcolm cerca di liquidare la disputa con una mossa wittgensteiniana: mostrare che il problema nasce da un cattivo uso del linguaggio. Non si tratta perciò di prendere posizione tra le due schiere, ma di dissolvere il problema, negandone la consistenza. Quando dovessi dire: «Sto dormendo», ritiene Malcolm, non farei altro che esprimere la mia intenzione di dormire, la mia indisponibilità a dare retta a chi mi disturba, ma evidentemente non starei ancora dormendo. Perciò, o l’espressione è usata per dire qualcosa d’altro (appunto qualcosa del tipo: «Non disturbarmi), oppure è priva di senso, perché quando si «dorme sodo» non si è certo in condizione di esprimere alcunché.
Quanto al principio di coerenza, Malcolm osserva che esso non ci dice se stiamo svegli o se sogniamo, ma solo che se siamo svegli, allora possiamo legare tra loro le diverse esperienze. Poiché però il principio dovrebbe dirimere la questione se siamo svegli o no, esso non è di alcun aiuto; al massimo può servire a riconoscere un’esperienza onirica da svegli (p. 118).
Provo a tirare le fila. La soluzione di Malcolm, per quanto stimolante, crea un grave problema metafilosofico: può un’analisi linguistica, in cui tra l’altro si riduce il sonno al solo dormire «di sasso», far scomparire una questione filosofica come quella circa il quesito sul rapporto sogno-realtà? Malcolm, da wittgensteiniano, ragiona come se il domandare filosofico fosse solo una questione di linguaggio e non avesse anche a che fare con altri ambiti, come ad esempio l’analisi dell’esperienza. Che i sogni siano esperienze che avvengono durante il sogno è ancora oggi la «received view», scriveva Daniel Dennet nel 1976, e anche in seguito le cose non sono cambiate. Malcolm invece nega che si facciano esperienze nel sonno e questo perché egli ha ristretto così tanto il concetto di sonno da non poterci tenere dentro niente. Gli esiti della sua filosofia dipendono dai concetti che si è forgiato, non all’inesistenza delle questioni. Il problema mi pare insomma irriducibile al linguaggio, e ancora fecondo.
Vorrei concludere riportandone una sua variante suggestiva, invitando il lettore a continuare così la meditazione. La storia si trova addirittura in Chuang Tzu. Questi sognò di essere una farfalla che volava felice, spensierata, tanto da non sapere di essere Chuang Tzu che sognava. Al risveglio, però, Chuang Tzu si chiese chi egli fosse: qualcuno che aveva sognato d’essere una farfalla, o una farfalla che sognava di essere Chuang Tzu.