Annovero tra gli incontri più fortunati della mia vita quello con José d’Encarnação, uno dei “numi tutelari” degli studi storici portoghesi, e per molti anni professore nella prestigiosa Università di Coimbra. Non solo perché è uomo di straordinaria cultura e umanità, ma anche perché è diventato nel tempo uno dei miei indispensabili “informatori” in merito alle novità bibliografiche di storia antica ed epigrafia. Infatti, non appena viene a conoscenza di qualche libro o articolo interessante, lo comunica subito via mail a una cerchia internazionale di amici, tra i quali sono onorato di esserci anch’io.
Ho dunque appreso da lui, proprio pochi giorni fa, di un recentissimo studio apparso lo scorso 23 novembre sulla rivista di libero accesso PlosOne a firma di alcuni ricercatori dell’University College di Londra e dell’Università di Glasgow – coordinati dal prof. Paul Pearson – dal titolo Authenticating coins of the ‘Roman emperor’ Sponsian.
Monete false o autentiche?
Il contenuto dell’articolo è relativo una moneta in lega d’oro, argento e rame trovata insieme ad altre in Transilvania, nell’odierna Romania (l’antica Dacia), nel 1713, e ora conservata nella collezione dell’Università di Glasgow. L’originario “tesoretto” è stato nel corso del tempo diversamente considerato dagli studiosi, e l’opinione fino ad oggi prevalente era quella che si trattasse di un insieme di falsificazioni; d’altronde l’imitazione di monete, iscrizioni, perfino statue o rilievi antichi è qualcosa con la quale gli antichisti di ogni epoca si sono trovati spesso a che fare.
Ma torniamo alla nostra moneta, la quale si caratterizza subito per un’evidente eccezionalità: la legenda menziona infatti sul diritto un Imp(erator) Sponsian(us) che è noto solo per quattro attestazioni numismatiche, tutte relative al ritrovamento dacico cui si è accennato. Se dunque – come sostengono gli autori dello studio – la moneta fosse autentica, si “autenticherebbe” automaticamente anche questo personaggio, che andrebbe ad arricchire la già folta serie degli imperatori romani (in senso lato, come vedremo).
Gli studiosi, analizzando l’oggetto con sofisticati microscopi (e non solo), hanno riscontrato tracce di sostanze minerali compatibili con un lungo interramento e con una successiva esposizione all’aria; inoltre appaiono segni di usura che lasciano pensare a una reale circolazione della moneta tra le mani della popolazione. Se poi si aggiunge il fatto che risultati analoghi sono arrivati dall’indagine degli altri tre documenti con l’effigie del Nostro, in particolare una moneta “gemella” conservata nel museo della rumena Sibiu, ecco che la figura di Sponsiano acquista una sempre maggiore consistenza.
Davvero troppo tecnica, per questa sede, è invece la riflessione sul rovescio della moneta “scozzese”, dove l’imitazione di un conio di età repubblicana emanato dal magistrato Caio Augurino (abbreviato C AVG), avrebbe potuto suggerire più o meno subdolamente l’epiteto Aug(ustus) anche per Sponsiano.
Sponsiano: chi era costui?
Ma chi era questo “Carneade” che è apparso da un giorno all’altro o quasi alla ribalta degli studi? Quando è vissuto? E in che senso possiamo chiamarlo “imperatore”, dato che le fonti antiche ne ignorano l’esistenza? Difficile rispondere con precisione, anche se la probabile datazione della moneta al 260 d.C. può aiutarci a provare a capire. Infatti noi sappiamo che la Dacia dal 256 d.C. (regnavano Valeriano e il figlio Gallieno) al 271 d.C. (regnava Aureliano) fu sostanzialmente sottratta al governo romano da popolazioni barbariche che miravano al controllo delle ricche miniere d’oro della regione. In questo frangente può essere che un qualche comandante militare (dunque un imperator) abbia provato a proteggere la popolazione civile dacica e i contingenti legionari qui stanziati dalle invasioni nemiche, e come tale sia stato percepito come autorità suprema: era una sorta di governatore de facto della provincia o di parte di essa. E poiché le monete sono segno concreto (e propagandistico) di autorità e potere costui – parliamo proprio di Sponsiano – ne avrebbe fatte coniare da qualche zecca locale alcune con il proprio volto e il proprio nome: ciò per dare visibilità e riconoscibilità al ruolo che la Storia (con la S maiuscola) gli aveva inopinatamente assegnato; un ruolo che così sarebbe apparso rilevante anche de iure. Ma nondimeno lo avrebbe fatto per avere denaro con cui pagare gli stipendi a soldati e ufficiali, e di conseguenza per fornire all’asfittica economia locale uno strumento di compravendita che favorisse gli scambi.
Un’epoca di crisi diffusa
Ovviamente si tratta di ipotesi che la comunità scientifica deve ancora validare, anche se il contesto cronologico – che è quello della cosiddetta “anarchia militare” o “crisi del III secolo” – rende il tutto almeno verosimile. Si tratta di un’epoca di imperatori effimeri e di oscuri usurpatori, di confini provinciali che si sgretolano e di nemici che alzano la testa davanti a una Roma indebolita: chi si può dimenticare, infatti, che proprio nel 260 d.C. Valeriano venne sconfitto a Edessa dal re persiano Shapur, il quale lo fece prigioniero e lo lasciò morire in cattività? Ci sono i rilievi di Naqsh-e Rostam a ricordarcelo!
Tacito, oltre un secolo prima, aveva denunciato con moralistico sdegno il fatto che era proprio lontano da Roma che i militari sceglievano i prìncipi che avrebbero governato l’impero, con la famosa frase evulgato imperii arcano posse principem alibi quam Romae fieri («(si era) svelato il segreto del potere, cioè che si poteva creare un prìncipe in un luogo diverso da Roma», Storie, I, 4). Ora i tempi erano cambiati, in peggio però, poiché era lo stesso istituto imperiale che – a Roma come altrove – da un lato perdeva la necessaria legittimità (in attesa del riassetto tetrarchico dioclezianeo), dall’altro faticava nel controllare gli ormai ecumenici domini romani. Poteva allora capitare che alibi quam Romae un prìncipe legittimo – un Augusto vero insomma – quale era Valeriano finisse in catene (come ho già detto) nelle mani nemiche oppure che, sempre alibi quam Romae, uno sconosciuto signore dal naso pronunciato e dal mento aguzzo potesse illegittimamente (?) indossare la corona radiata per provare a tenere viva la fiammella del potere romano in Dacia.
Il naso di Sponsiano
Se Blaise Pascal sosteneva che «se il naso di Cleopatra fosse stato più corto, sarebbe cambiata l’intera faccia della terra», non credo che si possa dire lo stesso del naso pur “importante” di Sponsiano. Sì, se davvero egli è esistito non ha certo cambiato il corso della Storia, mi pare; eppure questo “imperatore fantasma”, assurto alla porpora (o a qualcosa di simile) per volontà del caso, mi sta già simpatico, mi affascina, anche se lo conosco da poco. Se fossi un drammaturgo – cosa ben lontana dalle mie corde, purtroppo – scriverei una tragedia storica (alla Shakespeare o almeno alla Manzoni, per intenderci) con lui protagonista; e lo stesso farei se sapessi “cucirgli addosso” un romanzo storico. Chissà se si impose con la violenza, da vero e proprio usurpatore, magari pensando che le sue truppe lo avrebbero portato un giorno fino a Roma? Oppure se si sobbarcò obtorto collo un officium che percepiva più grande di lui? Domande per ora senza risposta, pertanto preferisco limitarmi alle modeste considerazioni fin qui fatte, mescolando il contenuto dell’articolo di partenza con qualche mia nota aggiuntiva.
Non è certo questo, lo so, un esempio corretto di metodologia storiografica, con l’aggravante (per il sottoscritto) di avere scritto “a caldo” un articoletto su un tema che avrebbe meritato ben altra documentazione; sono però fiducioso che colleghi e lettori potranno bonariamente perdonarmi, e unirsi a me nella trepida attesa che il “Tribunale della Storia” – in Appello e in Cassazione – ratifichi l’esistenza del personaggio e ci consenta di segnalarne almeno il nome nei futuri manuali.