L’interessante volume di Giovanni Maria Vian, Andare per la Roma dei papi, il Mulino, Bologna 2020, cita un romanzo che lessi molti anni fa e che mi piacque molto. Si tratta dell’opera di Guido Morselli, edita postuma da Adelphi nel 1974, dal titolo Roma senza papa, nella quale si immagina che un papa irlandese di nome Giovanni XXIV lasci il Vaticano per trasferire la sede papale in una villetta di Zagarolo. Sì, dopo secoli di permanenza del capo della Cristianità al Laterano, al Quirinale, nei palazzi del Vaticano o in quelli estivi di Castel Gandolfo Roma restava… senza papa! Cosa, questa, davvero difficile a credersi, anche perché senza i papi questa città avrebbe oggi avuto un’altra storia, e soprattutto un altro aspetto, dato che questi ne hanno influenzato la pianta, l’arredo urbano, la dimensione artistico-monumentale non meno di quanto avessero fatto in precedenza i Cesari. Qui, più che altrove, dunque la frase di Benedetto Croce «Non possiamo non dirci cristiani» (a prescindere dal nostro credo – o “non credo” – religioso) trova la sua plastica manifestazione.
Un viaggio a ritroso nel tempo
Giovanni Maria Vian, grande vaticanista, ci conduce per mano in un viaggio a ritroso nel tempo in questa “Roma dei papi”; un viaggio che inizia con le attuali residenze dei “due papi” Bergoglio (la “Santa Marta”) e Ratzinger (la “Mater Ecclesiae”), continua con il ricordo della costruzione della cosiddetta “Sala Nervi” per opera di Paolo VI, e via via si snoda nei secoli fino alle catacombe e al culto delle ossa di San Pietro sul sito dove oggi sorge la Basilica a lui dedicata, che è la chiesa più famosa del mondo.
È un viaggio che facciamo in compagnia di Beato Angelico, Raffaello, Michelangelo, Bernini, Borromini e di molti altri, che ci presenta alcuni papi edificatori (come Giulio II, Sisto V, Urbano VIII) e altri meno “spendaccioni”, e che più volte si sofferma sul profondo cambiamento avvenuto quando nel 1870, dopo la breccia di Porta Pia, Pio IX è stato – di fatto – destituito della funzione regale. Roma, allora, non restò “senza papa”, ma “senza papa re”.
Impossibile fare qui una sintesi di questo – pur agile – volume, ma un antichista come me rilegge sempre con piacere le vicende che hanno portato alla creazione delle raccolte vaticane, il cui nucleo originario è costituito dal Laocoonte marmoreo trovato nel 1506 sotto Giulio II (p. 115 ss.), o la storia del culto delle ossa dei martiri Pietro e Paolo e la scoperta della cosiddetta necropoli vaticana (p. 149 ss.).
Sarebbe poi quasi scontato suggerire un’attenta lettura delle vicende di San Pietro in Vaticano (p. 90 ss.) e della Cappella Sistina (p. 105 ss.), ma mi permetto invece di sottolineare la menzione – ancorché cursoria – di un monumento minore a me carissimo, e cioè la Basilica dei Santi Quattro Coronati (pp. 138-139), i cui colorati affreschi rappresentano quella “Donazione” di Roma a papa Silvestro, per opera di Costantino, che sarà sbugiardata in età umanistica da Lorenzo Valla: si tratta di una splendida oasi di pace ubicata tra la maestosa Basilica di San Giovanni in Laterano e il caos dei turisti in coda per visitare il Colosseo.
Gli esempi forse più significativi della ecumenicità (in senso culturale e cronologico) di Roma sono però gli imponenti obelischi (p. 125 ss.), oggetti che gli imperatori romani portarono qui come segno della sottomissione politica dell’Egitto, e che poi i papi (Sisto V tra tutti), ricollocarono a scopo ornamentale in varie parti della città: ben 13, infatti, sono stati oggetto di movimentazione tra Cinquecento e Ottocento.
Plautilla Bricci, l’architettrice
La lettura di questa guida mi ha invogliato a prendere in mano un romanzo che già avevo acquistato tempo fa, ma la cui mole (471 pagine) mi aveva invitato a riservare per i mesi estivi. Si tratta della splendida (l’aggettivo, vi garantisco, non è sprecato!) opera di Melania Mazzucco, L’architettrice, Einaudi, Torino 2019, la cui protagonista è senza dubbio la pittrice e “architettrice” (è la prima donna a fregiarsi di questo titolo) Plautilla Bricci (1616-1705), ma la cui co-protagonista è proprio la seicentesca Roma dei papi di cui già abbiamo parlato. Plautilla è figlia dell’eclettico pittore, drammaturgo, erudito (e molte altre cose ancora…) Giovanni Bricci, uomo cui non arrise mai il successo, che però intravide il talento della ragazza e la avviò alla carriera artistica. Ma se per una donna del tempo si poteva accettare il ruolo di pittrice (soprattutto se di casti soggetti religiosi), l’architettura era una pratica esclusivamente maschile; e a Roma – in quegli anni – non mancavano certo archistar del calibro di Bernini e Borromini, con i quali la competizione era impossibile per chiunque: figuriamoci per una donna di origini sociali modeste come Plautilla! Eppure la nostra tenace artista non solo divenne pittrice di buona fama, e come tale membro dell’Accademia di San Luca, ma associò il suo nome almeno a due importanti opere architettoniche: la cappella di San Luigi nella chiesa di San Luigi dei Francesi (quella dei Caravaggio…), e – soprattutto – la villa cosiddetta “del Vascello” presso Porta San Pancrazio.
Proprio questa Villa è un po’ il fil rouge del romanzo di Mazzucco, in primo luogo in quanto fatta edificare dall’abate Elpidio Benedetti, plenipotenziario del Cardinale Mazzarino e agente del re di Francia a Roma, nonché amante clandestino e mecenate di Plautilla. In secondo luogo perché fa da teatro al secondo piano narrativo dell’opera: infatti nel 1849 il “Vascello” fu eroicamente quanto vanamente difeso dagli assalti francesi dai volontari giunti a Roma in difesa dell’effimera “Repubblica romana”, evento raccontato dalla voce del patriota (e pittore dilettante) lombardo Leone Paladini, in alternanza alle vicende della nostra Bricci, anch’esse narrate in prima persona.
Un papa non vale l’altro!
Ma torniamo alla Roma dei papi, protagonista e co-protagonista dei due libri citati. Perché se sei un pittore, uno scultore, un architetto, un religioso, un diplomatico, non è certo vero che “un papa vale l’altro”. Lo sapeva bene anche un genio come Gian Lorenzo Bernini, in auge sotto Urbano VIII Barberini (dal 1623 al 1644), nell’ombra sotto Innocenzo X Pamphilj (dal 1644 al 1655), e di nuovo sugli scudi con Alessandro VII Chigi (dal 1655 al 1667), che gli commissionò – tra l’altro –il colonnato esterno di San Pietro! E prima di lui l’aveva sperimentato anche il Cavalier d’Arpino, la cui buona fama non impedì che il cardinale Scipione Borghese – nipote di Paolo V – nel 1607 gli “scippasse” con false accuse la ricca collezione di opere d’arte che aveva pazientemente allestito: il nucleo della attuale, splendida, “Galleria Borghese” deriva dunque da un miserabile sopruso!
E anche la nostra Plautilla, che pure non ebbe con pontefici e cardinali una familiarità tanto diretta come quella degli artisti testé menzionati, si rendeva conto che nulla potesse svolgersi nell’Urbe senza il benestare papale, anche se ci ricorda che «quando un papa dura troppo, il popolo comincia a odiarlo comunque» (L’architettrice, p. 274); questo, soprattutto, quando il popolo romano era stato da lui tartassato di tasse, come nel caso di
Urbano VIII («papa Gabella») che aveva perfino espropriato l’argenteria dei suoi sudditi per appagare la magnificenza dei Barberini: d’altronde il Pasquino non scrisse forse quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini? Sì, perché spesso lo splendore papale ha avuto come suo contrappasso la miseria popolare…
Saggistica e romanzo storico
Insomma, consiglio davvero questi due libri (anche se al saggio-guida di Giovanni Maria Vian manca un indice di luoghi e persone, che sarebbe davvero utile al lettore). E che sarebbe stato utile anche a me nello stendere questa “doppia” recensione, perché in qualche caso non ricordo davvero se le cose che ho scritto le ho apprese dalla sua lettura o dal romanzo di Melania Mazzucco. Si tratta comunque, in entrambi i casi, di informazioni affidabili, in virtù dell’autorevolezza accademica dell’autore del primo, ma nondimeno del rigoroso, filologico lavoro di ricostruzione dell’autrice del secondo, che è davvero – per certi versi – un “romanzo storico” d’altri tempi, laddove storia e invenzione, vero storico e vero poetico convivono regalando suggestioni manzoniane, fin troppo evidenti nella vivace e partecipata descrizione della peste romana del 1656.