I legami tra poesia e musica non sono soltanto tematici; moltissime canzoni infatti si inseriscono nel filone della poesia civile praticato da Dante oppure aderiscono alla prospettiva squisitamente lirica dominante nel Canzoniere (altra parola musicale) di Petrarca; per la verità i due grandi autori della letteratura italiana seguirono pure stili e generi diversi (Dante come stilnovista, Petrarca come autore “politico”). Soprattutto l’impostazione dialogica dei sonetti petrarcheschi (l’io innamorato e sofferente che dialoga con un tu distante e in seguito morto, del sesso opposto) regge gran parte dei brani musicali, anche se le nuove generazioni di cantautori e cantautrici prediligono le variazioni sul tema e non si tirano indietro nemmeno quando c’è da cantare la solitudine o il tradimento. Alla poesia lirica si affiancano poi quella di andamento narrativo, tipica dei poemi e, in prosa, delle fiabe, il genere encomiastico (la lode delle città) e un certo gusto per le immagini dalla forte carica simbolica.
Jovanotti stilnovista
Nell’EP Jova Beach Party (2019) di Jovanotti il testo Nuova era ha un che di preraffaelita che ci riporta alle parole chiave della poesia medievale dello Stil novo: la caratterizzazione dell’amata che, come «regina», «chiama a grandi imprese» gli astanti (Dante avrebbe detto i cuori «gentili»), che si fa notare «col tuo semplice procedere così sicura di te», che trasforma l’innamorato in «un poeta, / anzi di più un profeta / che annuncia al mondo l’inizio di una nuova era», ha il sapore di una ratatouille dantesca. L’incedere di questa novella Beatrice, che sembra dispensare salute cioè salvezza, richiama in particolare i versi del sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare. Ma Jovanotti non si ferma qui e verso la fine del brano, a sottolineare la scoperta della propria vocazione poetico-profetica, si rivolge direttamente «alla luna, / solitarissima luna», nel cui cielo Dante colloca le poche donne beate del suo tempo nella Commedia, tra le quali Piccarda Donati. La luna è del resto quella dei poeti, di Saffo, di Leopardi (si pensi al cielo notturno della Vita solitaria), di Pascoli ecc.
Le Laure dei Måneskin, i «tu» di Madame e Renzo Rubino
I nomi femminili che compaiono nelle canzoni possono essere figure reali oppure presentarsi come simboli, per esempio di libertà, come la Marlena dei Måneskin (in Morirò da re e soprattutto Torna a casa, 2018). Marlena raccoglie l’io lirico devastato e maledetto dai nemici, e lo conduce su una strada di riscatto fino all’età del «vecchierel canuto et biancho» di Petrarca («fino a che il tempo porterà sui tuoi capelli il bianco»), in un itinerario verso «tutte le vette» che evoca l’ascesa al monte Ventoso. Coraline, nell’omonimo brano (2021), è invece una ragazza dall’infanzia difficile: i capelli (non le guance) sono «come rose rosse», il cuore è diviso in due, un fiume sembra scorrerle dentro, sopra una verità difficile da verbalizzare, forse legata a un padre padrone, tanto da suscitare il senso di protezione dell’io. In questo racconto angoscioso Coraline si può salvare solo dentro un castello fortificato, come nelle saghe medievali.
Figure inedite di «tu» si palesano nei testi di Madame («Dove sei finita, amore?», da Voce, 2021) e Renzo Rubino («Amami, uomo», da Il postino, 2013): la prospettiva lirica resta e si arricchisce di nuove sfumature.
La fiaba garganica di Max Gazzé
Dall’immersione nel fiabesco, praticata già da De André (Carlo Martello, Geordie), è nata La leggenda di Cristalda e Pizzomunno di Max Gazzé (2018). Ispirata a una fiaba ambientata a Vieste, sulla costa del Gargano, la canzone ricostruisce una metamorfosi: il pescatore Pizzomunno è innamorato della giovane Cristalda, suscitando così l’invidia delle sirene, da lui ignorate. Queste imprigionano Cristalda nel fondo del mare e Pizzomunno per il dolore si trasforma in pietra, come un personaggio ovidiano. La canzone di Gazzé è un lamento struggente a Pizzomunno pietrificato, che aspetta trepidante quell’unico giorno ogni cento anni in cui le sirene concedono alla loro prigioniera di riemergere dalle acque per incontrare l’amato. Alternando elegia e racconto in flash-back («Cristalda era bella…»), Gazzè riscrive una fiaba tragica come guardando lo scoglio «di bianco calcare» che domina la spiaggia di Vieste.
Il canto della genitorialità e della figliolanza: aa. vv.
Soprattutto le poetesse italiane della seconda metà del Cinquecento delinearono nei loro testi quello che la studiosa Virginia Cox ha definito «petrarchismo domestico». Madri, mogli e più spesso vedove, queste autrici trovarono nella lirica per i familiari la propria cifra espressiva, al servizio di amori intensi, benedetti dalla religione e dal diritto. Neanche i cantanti e le cantanti si sottraggono all’emozione del diventare genitori: lo fa Claudio Baglioni in Avrai (1982); Eros Ramazzotti immortala (senza la fatica di un senhal) Aurora nel brano L’Aurora (1996); Jovanotti in Per te (1999) scioglie un cantico alla figlia nata «il tredici dicembre», dies natalis; Elisa riconosce il legame di vicinanza ma anche di necessaria distanza tra madre e figlia in A modo tuo (2014), dunque non «mio», e in O forse sei tu (2022). Ma l’elenco sarebbe lunghissimo: Fiore di maggio (1984) di Fabio Concato, Assomigliami adesso (1992) di Biagio Antonacci, Angelo (2005) di Francesco Renga… Al rovescio, una figlia evoca la figura materna, con i suoi chiaroscuri, nel testo In bianco e nero (2000) di Carmen Consoli, mentre un figlio evoca quella paterna, con malinconici arabismi, in Soldi (2019) di Mahmood.
L’io autonomo: Arisa, Noemi, Paola Turci
Della singletudine non ha paura La notte (2012) di Arisa. L’io lirico qui canta un dolore cupo, sul punto di sfociare nella depressione, e che si intuisce nato da una separazione («né vincitori né vinti»). La fine di un amore, la condizione di single nell’opinione di alcuni ha un’accezione ottusamente negativa (per molti altri la solitudine è una conquista). Lo sanno bene le autrici che nella storia della letteratura italiana hanno espresso apertamente la volontà di vivere al di fuori dei vincoli matrimoniali (o conventuali), come Moderata Fonte nel Cinquecento o Sibilla Aleramo nel Novecento. Vivere da sola, coltivando le proprie passioni culturali, non sottoporsi alle fatiche del ménage domestico o alle restrizioni claustrali delle regole di vita nei monasteri, era visto con sospetto dalle autorità. Si preferiva recludere le donne entro vari tipi di mura e indurre inesistenti vocazioni religiose piuttosto che consentire loro di scegliere. Aleramo insegna che l’essere donna precede l’eventuale maternità o l’eventuale matrimonio; nemmeno «quando arriva la notte» bisogna dimenticarlo. Lo ribadisce Noemi, che in Vuoto a perdere (2011) attribuisce ai cambiamenti della crescita corporea una valenza auto-conoscitiva: «mi guardo crescere / la mia cellulite, le mie nuove / consapevolezze»; e lo ribadisce Paola Turci in Fatti bella per te (2017), leggi: non per qualcun altro.
L’Italia, giardino devastato, da De Gregori a Willie Peyote
Sia Dante sia Petrarca, nei loro versi civili e impegnati, manifestano una furente indignazione verso un’Italia violata, messa sottosopra dall’anarchia politica o dalle scorrerie di soldati stranieri. Il «bel paese» che dovrebbe essere il giardino dell’Europa, ammirato dai viaggatori e dalle viaggiatrici del Grand Tour, è preda della zizzania, delle piante infestanti, della peste batterica e morale. A questa stessa immagine, in un’epoca non molto amica del ruolo dei poeti, si richiama un verso di Viva l’Italia (1979) di Francesco de Gregori: «L’Italia metà giardino e metà galera». È un filone che arriva fino ad anni recenti: il mondo ignora i fiori e «la primavera intanto tarda ad arrivare» in Povera patria (2010) di Francesco Battiato. Riallacciandosi al turpiloquio di Dante, una versione tristemente aggiornata del «paese di pittori, inventori, scrittori» si trova nell’arrabbiata Non basta mai di Fedez (2011), mentre tutte le ipocrisie dei rapporti tra nazionalismo e xenofobia sono puntualmente elencate in Io non sono razzista ma… (2015) di Willie Peyote.
La Roma dannunziana di Antonello Venditti
Tra i luoghi cari ai cantautori ci sono le città. Al nome di Venditti è associata quella di Roma, che fa capolino in molti dei suoi brani, sia nei titoli sia come scenografia nei suoi versi. A qualunque condizione meteorologica, la Città eterna offre ad abitanti e visitatori spettacoli indimenticabili: i pini marittimi (Notte prima degli esami, 1984), la pioggia (Piove su Roma, 2007), fino ai lunghissimi tramonti e alla luna piena sur cupolone in Roma capoccia (1972). Sono le stesse ambientazioni del Piacere di Gabriele d’Annunzio, romanzo nel quale l’io fragile del conte Andrea Sperelli si riflette (e cerca una compensazione) nei palazzi barocchi, nelle fontane, nei quadri manieristi. E un cameo di Venditti, come attore e come cantante (con Forever, 2012), impreziosisce un’altra opera d’arte intensamente dannunziana: il film La grande bellezza di Paolo Sorrentino.
Immagini immaginifiche: falene, rottami, rose, conigli e uccelli
Ci sono poi alcune immagini di grande suggestione che vediamo vivere tra poesie e canzoni, preservando oppure sfumando i contorni delle loro diverse collocazioni testuali: le «falene» che turbinano e poi precipitano scricchiolanti all’inizio della Primavera hitleriana tornano, entro ben altra cornice, in Falene (2021) di Michele Bravi, che con gli insetti notturni combina stridenti «frammenti di vetro». A proposito di Montale, la sua poetica degli «ossi dei seppia», dei relitti, degli scarti si intravede nelle vestigia che restano uniche spettatrici di una musica cacciata da tutti i luoghi consueti: «tra i palazzi distrutti dalle bombe nemiche» (Colapesce e Dimartino, Musica leggerissima, 2021); «tra i rottami / balla» (Dargen D’Amico, Dove si balla, 2022) – e per inciso Rottami doveva essere in un primo tempo il titolo di Ossi di seppia, ispirato ai Trucioli di Sbarbaro –; questi estremi appigli possono essere anche «le piccole poche cose da tenere strette» (Achille Lauro, Scelgo le stelle, 2014). Tra i piccoli fiori metaforici della grande tradizione letteraria spicca la «rosa» che Antonio, internato in manicomio, offre a Margherita in Ti regalerò una rosa (2007) di Simone Cristicchi, in versione rossa e bianca; l’amore, come ricordano le poesie di Alda Merini e i romanzi di Mario Tobino, resiste alle terapie brutali, alla «puzza di piscio e segatura», al tempo che passa senza una vera cura riabilitativa.
Una simbologia vertebrata attraversa invece alcuni testi dei Negramaro: un «verde coniglio», livido di viltà rispetto al Bianconiglio di Alice, agita Mentre tutto scorre (2005); «gli uccelli», discendenti postmoderni della colomba di Noè, annunziano «orizzonti / più lontani al di là del mare» in Fino all’imbrunire (2017).
Questa palingenesi è evocata da molti degli artisti e delle artiste contemporanee: un rinnovamento cosmico che ci riporta agli inizi del nostro percorso, cioè a san Francesco e Dante. E nel loro nome ci congediamo.
Leggi la prima parte qui.